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mercoledì 29 marzo 2023

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Chi perdona l'infedeltà coniugale ha diritto all'addebito in caso di separazione? 

In genere, le coppie ritengono che l'infedeltà coniugale sia una ragione sufficiente per porre fine al matrimonio, poiché ciò comporta una perdita di fiducia reciproca. 

Tuttavia, in alcuni casi, anche dopo aver scoperto il tradimento di uno dei partner, le coppie possono decidere di tentare di riparare il rapporto e continuare a vivere insieme.

Se l'infedeltà coniugale è la ragione per la fine del matrimonio, e non una conseguenza di altri comportamenti che hanno portato alla crisi, il coniuge infedele non ha diritto all'assegno di mantenimento. La separazione viene attribuita al coniuge che ha causato l'impossibilità di continuare la convivenza. Se questo coniuge subisce l'attribuzione, non ha diritto all'assegno di mantenimento, anche se è in una posizione di inferiorità economica. È necessario determinare se l'infedeltà è stata la causa della rottura del matrimonio o se si è verificata dopo che il rapporto della coppia si era già deteriorato a causa di altri fattori, come la distanza emotiva prolungata, l'abbandono del tetto coniugale, il rifiuto ingiustificato di avere rapporti sessuali, che con il tempo hanno portato alla perdita della comunione di vita, materiale e spirituale, che deve esistere tra i coniugi per giustificare la convivenza quotidiana.

Colui che afferma l'esistenza del tradimento deve essere colui che fornisce la prova del suo accadimento. Tuttavia, chi ha commesso il tradimento può dimostrare che il suo comportamento non ha contribuito alla fine del matrimonio, se l'impossibilità di continuare a convivere è stata causata da altri fattori.

 

Quando ci sono state più infedeltà coniugali e il coniuge tradito ha perdonato alcune di esse, diventa difficile determinare se il tradimento è stato la causa o la conseguenza della fine del matrimonio. In alcuni casi, il tradimento successivo, che si verifica dopo che il precedente era stato perdonato, diventa il motivo principale per la rottura definitiva del matrimonio, poiché la protratta e reiterata infedeltà di uno dei coniugi rende impossibile la prosecuzione della convivenza.

 

 

LA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE 

La Corte Suprema di Cassazione ha emesso la sentenza del 2/09/2022 n. 25966 riguardante il divorzio milionario di un famoso stilista dalla moglie. In passato, l'uomo aveva tollerato alcune infedeltà della moglie, ma in seguito non era più disposto a farlo e aveva richiesto la separazione e poi il divorzio con l'addebito della colpa alla moglie. La richiesta era stata inizialmente ostacolata dall'opposizione della moglie e respinta nei gradi di giudizio inferiori, ma alla fine l'uomo ha ottenuto ciò che chiedeva.

 

La Corte Suprema ha deciso che i tradimenti più recenti della moglie, quelli che sono avvenuti dopo il perdono precedente, avevano messo in crisi la coppia e causato la fine del matrimonio per colpa della donna, pertanto la separazione è stata addebitata a lei.



LA TOLLERANZA IN CAMPO GIURIDICO

La sentenza del 2/09/2022 n. 25966 della Suprema Corte di Cassazione si concentra sul valore della tolleranza dei precedenti tradimenti del coniuge nel contesto giuridico. La Corte afferma che il perdono manifestato dalla vittima dell'infedeltà non impedisce di lamentarsi di quelle successive, soprattutto se risultano numerose e continuate. L'infedeltà costituisce un comportamento grave che giustifica l'addebito della separazione, a meno che l'affectio maritalis non sia venuta meno per altre cause. La compiacenza del coniuge nei confronti della condotta infedele dell'altro non fa venire meno la gravità della violazione del dovere di fedeltà coniugale. La Suprema Corte ha rinviato gli atti alla Corte d'Appello per determinare i profili patrimoniali considerando i principi affermati dalla Corte Suprema. In attesa del giudizio finale, l'ex marito deve continuare a pagare alla moglie l'ingente somma di 60mila euro mensili, che erano stati riconosciuti inizialmente dal giudice della separazione per compensare la notevole differenza di reddito tra i coniugi.



venerdì 10 marzo 2023

LO SCREENSHOT DI UNA CHAT VALE COME PROVA LEGALE?


 LO SCREENSHOT DEGLI SMS O DELLA CHAT VALE COME PROVA LEGALE?

Con la sentenza n. 88332, depositata in cancelleria dalla Terza Sezione Penale in data 2 marzo 2020, la Cassazione ha sancito il principio in base al quale lo screenshot di messaggi sms -e quindi anche lo screenshot di una chat- equivale ad una fotografia, e dunque può essere acquisito come prova nell’ambito di un procedimento penale.

Ciò significa che può essere legittimamente utilizzato durante la fase istruttoria, ai fini del convincimento del giudice sulla sussistenza della fattispecie di reato. Di conseguenza, il giudice stesso può fare riferimento a tale prova nella motivazione della sentenza, per giustificare la propria decisione.

 

Secondo la Corte, infatti, non vi è “alcuna illegittimità nella realizzazione di una fotografia dello schermo di un telefono cellulare, sul quale compaiano messaggi sms, allo scopo di acquisirne la documentazione, non essendo imposto dalla legge alcun adempimento specifico per il compimento di tale attività, che consiste, sostanzialmente, nella realizzazione di una fotografia”.

Si tratta certamente di una fotografia particolare, ma “che si caratterizza solamente per il suo oggetto, costituito, appunto, da uno schermo sul quale siano leggibili messaggi di testo”.

 

Ciò comporta che non vi sia “alcuna differenza tra una tale fotografia e quella di qualsiasi altro oggetto, con la conseguente legittimità della sua acquisizione”.

Sulla base di tale assunto, anche lo screenshot di una chat integra una prova che può essere validamente acquisita.

La Suprema Corte, pronunciandosi sul ricorso sottoposto al suo vaglio, lo ha pertanto dichiarato inammissibile, relativamente al motivo in base al quale il ricorrente lamentava sostanzialmente l’illegittimità dell’acquisizione probatoria, da cui sarebbe scaturita l’inutilizzabilità della stessa.

 

La prova in questione era appunto costituita dai messaggi sms pervenuti sul telefono cellulare della madre della persona offesa e solo fotografati, con la conseguente incertezza –lamentava il ricorrente- in ordine alla loro provenienza, sia per la mancata disposizione di una perizia informatica volta ad accertarne il mittente, sia a causa della mancanza di qualsiasi elemento idoneo a collegare l’utenza telefonica dalla quale erano stati inviati al ricorrente medesimo.

Tale motivo del ricorso è però stato dichiarato dalla Cassazione manifestamente infondato, con conseguente inammissibilità della doglianza. Ciò in quanto gli screenshot costituiscono una prova legittima, al pari di qualsiasi altra fotografia, e possono perciò essere utilizzati nei procedimenti penali.

 

Vale la pena precisare che lo screenshot deve però provenire da un’apparecchiatura elettronica di cui abbiamo il possesso e deve riprendere qualcosa che noi abbiamo diritto di conoscere o a cui abbiamo diritto di accedere; oppure, in caso così non fosse, che i messaggi o le chat ripresi dallo screenshot stesso siano di persone che ci hanno autorizzati ad avvalercene. In caso contrario si commetterebbe il reato di accesso abusivo al sistema informatico, previsto dall’art. 615 ter c.p.

lunedì 6 marzo 2023

LE VIDEOREGISTRAZIONI

Quando la videosorveglianza risulta illecita - Italsicurezza


Sentenza della Corte Suprema di Cassazione n. 6812/2013 della II Sezione Penale

 

Le riprese vengono analizzate dalla Suprema Corte quali prove documentali nel processo penale e la stessa sentenza analizza altresì anche, in via incidentale, la materia della Privacy. 

La controversia si riferisce al caso di un imputato, condannato per i reati di tentata estorsione, molestie, danneggiamento ed ingiurie a cui si è pervenuti grazie anche ad alcuni filmati ricavati da un impianto di videosorveglianza installato all’esterno del negozio della persona offesa. 

 

Il condannato ha quindi proposto ricorso per Cassazione, tra l’altro assumendo che tali videoregistrazioni erano state effettuate in violazione del codice della privacy e pertanto non potevano essere utilizzate, trattandosi di prova illegittimamente acquisita, ex art. 191 c.p.p. (il quale testualmente recita: le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzati).

 

La Corte di cassazione in tale sentenza chiarisce quindi che le videoregistrazioni dell’impianto di sorveglianza apposto dalla persona offesa all’esterno del suo negozio non possono essere considerate prove illegittimamente acquisite ai sensi dell’art. 191, trattandosi di prove documentali di cui il codice di rito espressamente consente l’acquisizione. 

 

In tale contesto, è del tutto irrilevante che le registrazioni siano state effettuate in conformità o meno delle istruzioni del Garante per la Protezione dei dati personali, non costituendo la disciplina sulla privacy sbarramento all’esercizio dell’azione penale. 

 

Con riferimento alle videoriprese effettuate dalla Polizia giudiziaria, questa Corte ha avuto modo di statuire che sono legittime le videoriprese, eseguite dalla polizia giudiziaria, in assenza di autorizzazione del giudice, mediante telecamera esterna all’edificio e aventi per oggetto l’inquadramento del davanzale della finestra e del cortile dell’abitazione, trattandosi di luoghi esposti al pubblico e, pertanto, oggettivamente visibili da più persone. Ne deriva che, in virtù di detta percepibilità esterna, non sussiste alcuna intrusione nella privata dimora o nel domicilio e non sussistono, pertanto, le ragioni di tutela, sub specie di diritto alla riservatezza o alla “privacy”, ad essi connesse, potendosi, in tal caso, sostanzialmente equipararsi l’uso della videocamera ad una operazione di appostamento, eseguita nei limiti dell’autonomia investigativa, senza alcuna necessità di autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 10697 del 24/01/2012 Ud. (dep. 19/03/2012) Rv. 252673).

 

Nella sentenza si fa quindi riferimento alle prove documentali del nostro codice di procedura penale, ovvero a quelle previste dall’articolo 234 c.p.p. il quale recita testualmente: “E’ consentita l’acquisizione di scritti o di atri documenti che rappresentano fatti persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo”. 

 

La Cassazione quindi afferma che, se anche l’agente ha violato il codice della Privacy ciò non impedisce a quella immagine di entrare lecitamente nel processo penale come prova documentale. Attenzione però ai risvolti giudiziari, in quanto seppur vero che l’immagine viene lecitamente acquisita nel processo penale però è altrettanto vero che l’art. 330 c.p.p. impone al pubblico ministero, una volta appresa la notizia di reato, di perseguire il presunto responsabile per il reato a lui ascritto. 


Ridotto ai minimi termini se l’investigatore privato acquisisce un’immagine violando le norme sulla Privacy lo stesso, certamente, può farle valere in sede penale ma successivamente dovrà difendersi, sempre in sede penale, per l’infrazione al codice sulla protezione dei dati personali qualora si accerti che sia stato violato.