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venerdì 29 marzo 2013

Cassazione: illegittimo il sequestro preventivo dei beni aziendali per il reato di evasione fiscale

Corte di Cassazione Penale, sentenza n. 9576 del 28 febbraio 2013
Il sequestro preventivo è quello strumento a disposizione del PM che permette alle autorità di esercitare il controllo su determinati beni, sottraendoli alla disponibilità dell'indagato, beni che sono strettamente collegati al reato per cui si sta indagando. L'applicazione di tale misura, assai invasiva, è sottoposta però a limiti molto rigidi: il Pubblico Ministero può proporre istanza al GIP, il quale potrà accettare la richiesta disponendo il sequestro a mezzo decreto motivato (art.321 c.p.p.) soltanto nel caso in cui vi sia concreto pericolo di reiterazione del reato o di commissione di nuovi reati se il bene rimanesse nella disponibilità dell'indagato o ancora se il bene stesso sia dotato di pericolosità intrinseca (periculum in mora).

Nel caso in oggetto ad un'azienda, il cui amministratore è indagato per evasione fiscale, è stata applicata in secondo grado la misura cautelare del sequestro preventivo. La misura avrebbe avuto ad oggetto la quota di patrimonio aziendale equivalente alla somma presumibilmente evasa.

La Suprema Corte ha tuttavia ritenuto illegittimo tale provvedimento, annullando di conseguenza l'ordinanza impugnata, poiché la situazione di fatto sarebbe stata carente degli elementi necessari all'applicazione di tale misura: il Giudice competente avrebbe concesso la misura sfruttando una "motivazione apparente", non avendo il PM adeguatamente sviluppato argomentazioni a contrario rispetto al dato giuridico della separazione tra patrimonio aziendale e gestione dello stesso posta in essere dall'amministratore responsabile. Mancando il periculum in mora, requisito fondamentale per l'applicazione di questa misura cautelare, la Suprema Corte ha statuito che in questa particolare situazione il sequestro preventivo non può essere concesso.


Cassazione: Padre disoccupato e madre benestante? Se lui non mantiene la figlia commente comunque reato


Il mancato versamento dell'assegno di mantenimento per i figli da parte dell'ex marito disocccupato costituisce reato, anche se la madre è benestante e gode di mezzi economici sufficienti per occuparsene. E' quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 10147/2013.

A essere condannato è stato un ex coniuge che si era rifiutato di lasciare alla moglie la casa coniugale (art 388 comma II cp) e che non era stato puntuale nel versare il mantenimento, ritardandolo fino a quattro mesi (art 570 comma II cp).

Non ha fatto breccia presso la Corte la tesi della difesa, secondo la quale l'ex moglie, in quanto in possesso di adeguati mezzi economici, sarebbe stata in grado di provvedere ai bisogni della figlia minore. Per la Suprema Corte, infatti, è ininfluente il fatto che la madre avesse predisposto per la figlia la sufficienza dei mezzi di sostentamento.

La motivazione è che lo stato di bisogno dei figli minori permane anche nei casi in cui sia la madre a provvedere alla somministrazione dei mezzi di sussistenza.

Inoltre, secondo la Cassazione, l'asserita insufficienza economica non è da considerarsi rilevante quando "non venga dimostrato, su impulso del soggetto interessato, l'oggettiva impossibilità di adempiere". Dichiarare la propria condizione di disoccupato, infatti, non esclude in radice altre possibili fonti di reddito e di conseguenza non solleva il padre dalla responsabilità di commettere il reato di omessa prestazione dei mezzi di sussistenza. In conclusione, l'ex marito è tenuto a corrispondere puntualmente l'assegno di mantenimento per i figli, a prescindere dalle condizioni economiche della madre. A meno che non dimostri di essere realmente impossibilitato a farlo.

Cassazione: si può licenziare dipendente che diffonde notizia della prossima chiusura della società

Di certo non è un'idea felice quella di diffondere la notizia che la società presso cui si lavora sta per chiudere. Specialmente se la notizia arriva anche nelle orecchie dei clienti.

A fronte di un simile comportamento la Corte di Cassazione, con sentenza n. 4859 del 27 febbraio 2013, ha affermato che il datore di lavoro può legittimamente licenziare il dipendente.

La vicenda prese in esame dai giudici di piazza Cavour riguarda un licenziamento intimato ad un lavoratore che aveva diffuso la notizia della prossima chiusura della società e in particolare della struttura operativa presso la quale il dipendente svolgeva la propria attività .

Confermando la decisione della Corte d'Appello, che aveva riformato la sentenza precedentemente emessa in primo grado dal giudice del lavoro, la Suprema Corte ha precisato che tali notizie, in quanto provenienti da un soggetto qualificato, per avere il dipendente raggiunto un posto rilevante in seno alla società, per non essere rimaste confinate all'ambito interno essendo giunte anche ai clienti, avevano acquisito "una più ampia potenzialità di effetti" in ordine al danno di immagine per la datrice di lavoro.

Inoltre come sottolineato dal giudice territoriale "l'eventuale attentato alla credibilità di un'impresa, attraverso dichiarazioni non veritiere, costituiva fatto idoneo a minare in radice il rapporto di fiducia ed affidamento che il datore di lavoro ha diritto di nutrire verso il proprio personale e che la inspiegabilità delle ragioni che avevano indotto il lavoratore a diffondere tali notizie non attenuava ma, anzi, aggravava la entità dell'illecito rendendo ineludibilmente compromessa la prosecuzione del rapporto.".

Corte Cassazione e anatocismo bancario - sentenza 798 2013

Con la sentenza n.798 del 15 gennaio 2013 la sez. III civile della Corte di Cassazione ha nuovamente affrontato il tema dell'anatocismo e delle condizioni per proporre l'azione di nullità della clausola che pattuisce gli interessi e la domanda di ripetizione di quanto indebitamente addebitato dagli istituti di credito.

Il giudizio deciso dalla Corte in sede di legittimità scaturisce da un decreto ingiuntivo che, come si evince dalla sommaria ricostruzione del fatto, è stato proposto dal correntista nei confronti di un istituto di credito al fine di conseguire la restituzione dell'importo di L.413.785.381 a titolo di ripetizione di indebito oggettivo derivante dall'applicazione di interessi ultralegali e c.m.s. non validamente pattuiti per iscritto e, comunque, usurari, relativamente a tre rapporti di conto corrente bancario. Immaginiamo che a sostegno del ricorso monitorio il correntista abbia allegato gli estratti conto dai quali emergeva, verosimilmente, il saldo a debito del conto corrente e, poi, una ricostruzione contabile che determinava l'importo indebitamente addebitato.
Il giudice di primo grado ha accolto l'opposizione al decreto ingiuntivo proposta dalla Banca. Il correntista soccombente ha impugnato la sentenza di primo grado che, invece, la Corte d'Appello ha confermato. Pare di poter dedurre dalla pronuncia che si esamina che, a parere del ricorrente, la motivazione della sentenza impugnata fosse viziata per mancata valutazione di tutta la documentazione prodotta da cui sarebbe emersa, sia l'esistenza della causa debendi vantata dalla Banca, sia l'addebito di interessi e commissioni non dovuti.
La Corte di Cassazione a tal proposito precisa che "il vizio di motivazione sollevato dall'appellante appare inammissibile, perchè volto a conseguire un diverso apprezzamento delle risultanze documentali, già valutate dai giudici del merito con motivazione succinta, ma comunque adeguata e dissimula, dunque, una richiesta di riesame del merito, inibita in sede di legittimità. Peraltro il vizio costituito dalla mancata valutazione da parte del giudice di appello di alcuni documenti sarebbe inammissibile anche perché il presunto errore giudiziale non corrisponderebbe ad alcuno dei motivi di ricorso ai sensi dell'art. 360 c.p.c.".

Fermo quanto finora precisato la Corte prosegue nelle proprie valutazioni ed esamina quello che, a suo avviso, costituisce il punto centrale della decisione impugnata ove si precisa che "è ripetibile la somma indebitamente pagata e non già il debito sostenuto come illegale".
La Corte di Cassazione ricostruisce l'iter argomentativo che ha condotto il giudice di secondo grado ad effettuare la citata precisazione. Come hanno chiarito le Sezioni Unite della Cassazione intervenendo in materia di prescrizione del diritto alla restituzione dell'indebito, è indispensabile distinguere due tipologie di versamenti annotati in conto corrente. Solo quando il correntista non ha un'apertura di credito oppure ha un'apertura di credito e ha superato i limiti della stessa, ogni versamento che sarà annotato a debito rappresenterà un pagamento in quanto sarà finalizzato a realizzare uno spostamento patrimoniale in favore dell'istituto di credito che ne accresce il patrimonio a detrimento del correntista stesso.

La Corte osserva che il presupposto per la restituzione dell'indebito è che esista un pagamento cioè un versamento solutorio effettuato in assenza di un'apertura di credito oppure quando il limite dell'apertura di credito è stato superato. La sentenza infatti statuisce: "nel caso che durante lo svolgimento del rapporto il correntista abbia effettuato non solo prelevamenti, ma anche versamenti, in tanto questi ultimi potranno essere considerati alla stregua di pagamenti, tali da poter formare oggetto di ripetizione (ove risultino indebiti), in quanto abbiano avuto lo scopo e l'effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca. Questo accadrà qualora si tratti di versamenti eseguiti su un conto "scoperto" (cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista, o quando i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell'accreditamento) e non, viceversa, in tutti i casi nei quali i versamenti in conto, non avendo il passivo superato il limite dell'affidamento concesso al cliente, fungano unicamente da atti ripristinatori della provvista della quale il correntista può ancora continuare a godere."
La Corte prosegue sostenendo che l'annotazione rilevabile dagli estratti conto di una posta di interessi (o di c.m.s.) illegittimamente addebitati dalla banca al correntista non basta di per sé a dimostrare che a quell'annotazione abbia corrisposto un versamento solutorio e, quindi, un pagamento. Il correntista, dunque, sulla base di tali mere annotazioni (magari ricostruite da una consulenza contabile) non può agire per la ripetizione di un pagamento che, in quanto tale, da parte sua non ha ancora avuto luogo. La Corte, infatti, precisa: "Di pagamento, nella descritta situazione, potrà dunque parlarsi soltanto dopo che, conclusosi il rapporto di apertura di credito in conto corrente, la banca abbia esatto dal correntista la restituzione del saldo finale, nel computo del quale risultino compresi interessi non dovuti e, perciò, da restituire se corrisposti dal cliente all'atto della chiusura del conto."
In altri termini il correntista, nel caso esaminato dalla Corte, esigeva la restituzione dell'importo corrispondente ad una parte della somma dei saldi debitori dei suoi tre conti correnti così come risultanti, verosimilmente, dagli estratti conto allegati al decreto ingiuntivo (il passivo complessivo, infatti, era pari a L. 786.333.219), adducendone l'illegittimità, senza tuttavia aver dimostrato di aver chiuso l'apertura di credito o anche il conto e di aver restituito alla Banca il complessivo saldo a debito.
L'ingiungente, dunque, non ha dato prova di quell'arricchimento indebito dell'Istituto di credito che gli avrebbe dato diritto a conseguire la restituzione, tant'è che la Corte territoriale aveva affermato che "mancava la prova della corresponsione degli interessi, segnatamente evidenziando l'inconferenza della mera deduzione dell'illegittimità della clausola determinativa degli stessi, avuto riguardo all'oggetto dell'azione di ripetizione, rappresentato dal pagamento indebito e non già dal "debito sostenuto come illegale".
Ne consegue, quindi, che il correntista che voglia esigere la ripetizione dell'indebito adducendo l'illegittimità degli addebiti di interessi, CMS e valute può farlo solo con riferimento a versamenti di carattere solutorio e ha l'onere di fornire la prova che tali pagamenti siano effettivamente avvenuti, cosa che accade con la chiusura dell'apertura di credito o del conto corrente e con la corresponsione alla Banca dell'eventuale saldo debitore.
Diversamente, come, peraltro, già precisato da alcuni Tribunali, qualora non si fornisca tale prova, il correntista non può chiedere la ripetizione dell'indebito ma solo la rettifica del saldo.

Cassazione: occhio ai pettegolezzi sui vicini, è diffamazione

Attenzione a divulgare pettegolezzi in merito a fatti compiuti da terzi, veri o presunti che siano, è reato. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, che con la sentenza 8348/2013 ha condannato un uomo, e non una donna come si potrebbe facilmente presupporre, per aver diffuso la notizia di una presunta relazione adulterina di una vicina. A denunciarlo, cognata e fratello della donna che avevano appreso della questione dal vicino stesso.

A far fede è stata in misura maggiore la deposizione dettagliata del fratello della donna, maggiormente coinvolto nella vicenda a motivo del legame parentale particolarmente stretto.

Si sarebbe trattato di diffamazione anche nel caso in cui la notizia divulgata fosse stata vera? Sì, perché per costituzione sono da tutelare l'onore della persona e da rispettare la vita privata e familiare di un individuo.

"La riservatezza come dignità può cedere dinanzi al pubblico interesse della notizia, ma non può, in linea di principio, ammettersi che ciò avvenga oltre al soglia imposta dalla destinazione della notizia a soddisfare un bisogno sociale", ha ricordato la Suprema Corte nella sentenza.

Scatta quindi la condanna per diffamazione anche in relazione a comportamenti non approvati dall'opinione comune e fuori dai canoni etici, e non soltanto quando si attribuisce ad un individuo la paternità di un gesto compiuto che sia penalmente perseguibile.

Cassazione: non va ridotto il mantenimento alla ex che ha scelto la pensione anticipata


Ancora una volta la Corte di Cassazione torna ad occuparsi della liquidazione dell'assegno di mantenimento. Questa volta il caso riguarda il caso di una coppia in cui l'ex marito voleva pagare meno alla ex moglie dato che lei di sua iniziativa aveva deciso di andare in pensione in anticipo, all'età di soli 49 anni.
Questa scelta, secondo il marito, aveva determinato una riduzione volontaria delle entrate e per questo il mantenimento doveva essere ridotto considerando anche l'attitudine al lavoro della ex compagna.

Secondo la Corte però, la scelta del pensionamento anticipato non può essere imputabile all'ex dato che non risulta provata alcuna volontà contraria del marito all'epoca in cui questa scelta fu fatta. Epoca in cui la coppia ancora viveva insieme.

Come spiegano i Giudici di Piazza Cavour (sentenza 20 febbraio 2013 n. 4178), quando si prendono decisioni sull'assegno di mantenimento si deve tenere conto del fatto che la separazione instaura un regime che tende a conservare gli effetti del matrimonio compatibilmente con la cessazione della convivenza. Risulta corretta per questo la decisione della Corte d'appello anche in relazione alla valutazione dell'attitudine del coniuge al lavoro.

I giudici di merito hanno correttamente fatto proprio l'orientamento della Cassazione secondo cui l'attitudine del coniuge al lavoro assume rilievo solo in presenza di un'effettiva possibilità di svolgimento dell'attività lavorativa retribuita. Nella fattispecie, l'età della donna e l'avvenuto pensionamento anticipato impedivano sicuramente di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto durante la convivenza essendo anche accertata la disparità economica tra le parti.

Cassazione: no agli apprezzamenti volgari ad una collega. E voi che ne pensate?

Meglio evitare battutine poco eleganti alle proprie colleghe, anche se apparentemente "consenzienti". Potreste infatti ritrovarvi condannati per ingiuria. Che non è propriamente un punto a favore nel curriculum professionale.

Quel che è accaduto ad un impiegato delle Poste potrebbe servire come monito a molti uomini dalla battuta facile (che poi ammettiamolo, molte donne gradiscono). Il signor Roberto T. si è visto infatti annullare dalla Quinta Sezione Penale della Cassazione, con la sentenza 8761/2013, un'assoluzione dal Tribunale di Massa per ingiuria nei confronti di una collega, Stefania M., a cui aveva ben pensato di dare della "pornodiva". La frase incriminata sarebbe più precisamente "Ah, c'è anche la pornodiva sulla piazza".

Ora, quali che fossero le mises o gli atteggiamenti della signora in questione non ci è dato sapere (e forse poco dovrebbe interessarci), fatto sta che quello che per l'uomo doveva essere un semplice scambio di battute in un clima di "ilarità" e "scherzo", rischia di trasformarsi in un incubo.

Già il Giudice di Pace nel 2000 aveva inflitto all'uomo una multa di 400 euro quale risarcimento dei danni subiti dalla collega; sentenza che però in appello era stata annullata sulla base della "non sussistenza del reato", in quanto l'impiegato aveva agito "per esuberanza e per familiarità con un certo tipo di scherzo nell'ambiente di lavoro". Insomma dare della "pornodiva" in un ambiente goliardico altro non poteva essere che una "condotta scherzosa". Beh, andatelo a dire a chi passa le ore in fila per una raccomandata.... mah.

A questo punto la donna ha fatto ricorso, costituendosi parte civile, e gli ermellini lo hanno accolto, sulla base del fatto che "una donna possa tollerare delle avances più o meno tra il serio e il faceto non comporta affatto che ella si debba considerare disposta a farsi prendere a male parole, così come, ancor prima, l'avere risposto con un sorriso alla condotta scherzosa di un collega non autorizza affatto un altro uomo a ritenere che le sue battute siano altrettanto tollerate, o addirittura gradite".

A questo punto che qualcuno giri la notizia anche al Cavaliere, che con le sue "simpatiche" battute è andato un po' troppo oltre con una venditrice. E potrebbe rischiare un ulteriore processo, per cui non potrà contare su legittimi impedimenti. Però in fondo, l'azienda in cui la signora è impiegata non è sua.

Ora mi piacerebbe sentire che ne pensano sia gli uomini sia le donne a riguardo....


Cassazione: non basta attitudine al lavoro della ex per negarle il mantenimento

Non basta accertare l'esistenza di un'attitudine al lavoro della ex moglie per potersi sottrarre all'obbligo di corrispondere l'assegno di mantenimento.

È quanto afferma la Corte di Cassazione con la sentenza numero 3502/2013 che ha ribaltato un precedente verdetto della Corte di Appello di Catania che, a sua volta, aveva confermato la decisione del giudice di primo grado con cui era stato negato il mantenimento a una ex moglie ed aumentato, invece, l'importo del mantenimento dei figli collocati presso la madre.

La corte territoriale analizzando quanto emerso nel corso dell'istruttoria aveva evidenziato che il reddito del marito risultava inferiore a quello della moglie e che era anche cointestatario di mutuo ipotecario. Allo stesso tempo però, risultava proprietario di quote di fondi di una società e risultava essere socio di due società a responsabilità limitata.

Non solo: l'ex si marito era anche proprietario del 50% della casa coniugale ed aveva acquistato la nuda proprietà di un locale ad uso commerciale.

Al contrario il reddito della moglie si concretava nel corrispettivo dell'alienazione della meta' della casa coniugale (155 milioni di lire); "nella cointestazione di titoli mobiliari per 51 mila Euro e nell'esistenza di tre conti correnti con un movimento di modesta entita'".

La Corte d'Appello riteneva però che che non potessero sussistere i presupposti per riconoscere un mantenimento in favore dell'ex moglie che, data la giovane età e il conseguimento di un diploma di laurea, aveva la possibilità di inserirsi nel mondo del lavoro. Veniva quindi aumentato solo il contributo per il mantenimento dei figli minori tenendo conto anche del tipo di attività svolta dall'ex marito che denotava una maggiore capacità economica.

Il caso veniva portato quindi dinanzi alla Corte di Cassazione dove la ricorrente lamentava che la sentenza impugnata non aveva considerato come condizione essenziale per il sorgere del diritto al mantenimento del coniuge, la mancanza di redditi adeguati a consentire un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio. Secondo la ricorrente inoltre, la Corte d'Appello aveva "reputato che l'astratta attitudine e capacita' di lavoro del coniuge separato potesse far elidere il dovere di solidarieta' coniugale posto alla base dell'obbligo di mantenimento sancito nell'art. 156 c.c."

Una tesi che ha fatto breccia nei giudici di Piazza Cavour. Come si legge nella parte motiva della sentenza, nel provvedimento impugnato "si da atto che la ricorrente non svolge attivita' lavorativa e che la sua condizione patrimoniale, come affermato dalla Corte d'Appello nella motivazione della statuizione relativa all'aumento dell'assegno di mantenimento in favore dei figli minori, era nettamente inferiore a quella del coniuge". La sentenza impugnata aveva sostanzialmente dato rilievo a una potenziale professionalità della donna, ma tali condizioni se non sono collegate ad una concreta prospettiva di svolgere un'attività produttiva di reddito non possono far venir meno l'obbligo di corrispondere l'assegno di mantenimento.




Cassazione: ecco fino a che punto l'ipoteca garantisce gli interessi di mora

L'ipoteca, anche se è stata iscritta per garantire l'intero credito e gli interessi di mora, trova una limitazione nelle disposizioni contenute negli articoli 2788 e 2855 del codice civile. La prelazione ipotecaria per gli interessi maturati "dopo la scadenza dell'annualità in corso al giorno del pignoramento e fino alla data di vendita" sussiste, infatti, solo per gli interessi legali di cui all'art. 1284 c.c., essendo escluso, quindi, ogni riferimento a saggi di interesse stabiliti in misura superiore da norme speciali.

A precisarlo è la Corte di Cassazione (sentenza numero 775/2013) che si è occupata di una opposizione agli atti esecutivi, con cui veniva impugnata con ordinanza emessa dal giudice dell'esecuzione nell'ambito di una procedura esecutiva immobiliare.


L'ordinanza aveva confermato un progetto di distribuzione delle somme ricavate dalla vendita. L'opponente che aveva un credito garantito da ipoteca aveva contestato il fatto che non fosse stato considerato, nel progetto di distribuzione, il privilegio ipotecario per una parte del suo credito ossia per gli "interessi corrispettivi e moratori, gli interessi legali, relativi all'anno in corso, all'atto del pignoramento e fino alla vendita".

Il creditore che aveva proposto l'opposizione aveva contestato quanto affermato dal giudice dell'esecuzione secondo cui non potesse riconoscersi il privilegio ipotecario ai sensi dell'articolo 2855 del codice civile agli interessi moratori.

Dopo il rigetto dell'opposizione il caso finiva dinanzi alla Cassazione che ha chiarito come gli articoli 2788 e 2855 del codice civile, "nel disporre che la prelazione ipotecaria per gli interessi maturati dopo la scadenza dell'annualità in corso al giorno del pignoramento e fino alla data della vendita ha luogo solo nella misura legale, si riferiscono all'interesse legale previsto dall'art. 1284 c.c.".

Ne deriva che è escluso, quindi, ogni riferimento a saggi d'interesse stabiliti in misura superiore da norme speciali.

Cassazione: si possono offrire 10 euro agli agenti della stradale per evitare la multa. Non c'è corruzione

Il tentativo di un automobilista di convincere due agenti della polizia stradale a non multarlo per un'infrazione al codice della strada gli era costato una condanna da parte dei giudici di merito per istigazione alla corruzione. La vicenda è finita però davanti alla corte di cassazione che ha ribaltando il verdetto ed ha assolto l'imputato "perché il fatto non sussiste".

La decisione è della Sesta Sezione Penale della Corte (sentenza n.7505/2013) secondo cui la "palese irrisorietà" della somma offerta agli agenti della stradale era tale da non essere idonea a corromperli.

Semmai si sarebbe potuto parlare di oltraggio ma non certo di istigazione alla corruzione.

Il caso preso in esame dai giudici di piazza Cavour riguarda un automobilista che, fermato e contravvenzionato dalla polizia stradale, al momento in cui era stato richiesto di esibire la carta di circolazione, lo aveva fatto inserendo dentro una banconota da 10 euro. L'automobilista rivolgendosi agli agenti aveva anche detto "lassate stare e pigliatevi nu cafe".

Dato che la cosa era stata ripetuta con una certa insistenza gli agenti decidevano di denunciarlo. Dopo l'assoluzione in primo grado interveniva dalla corte d'appello che riteneva invece di dover punire quella condotta ai sensi dell'articolo 322 del
codice penale dato che l'imputato, in quel modo, avrebbe voluto evitare la contravvenzione.

Di diverso avviso la corte di cassazione dove ha fatto breccia la tesi del difensore del giovane automobilista secondo cui quel gesto, fatto da una persona "semplice", al massimo poteva essere interpretato come "segno di disprezzo degli agenti" ma non come istigazione alla corruzione.

La decisione è stata quindi annullata senza rinvio. Nella parte emotiva della sentenza si legge che "l'esibizione di una somma di 10 euro, corrispondenti ad una utilita' pari a 5 euro per ciascuno dei pubblici ufficiali operanti e destinatari dell'istigazione, al fine di poter fare loro omettere e quindi in concreto impedire - la preannunciata contravvenzione, per la sua palese irrisorieta', puo' semmai configurare il reato di oltraggio, per l'offesa all'onore e al prestigio del pubblico ufficiale destinatario della dazione stessa".

Cassazione: il reato di maltrattamenti in famiglia continua anche dopo la cessazione del rapporto di convivenza

"La cessazione del rapporto di convivenza, ad esempio, a seguito di separazione legale o di fatto, non influisce sulla sussistenza del reato di maltrattamenti, rimanendo integri, anche in tal caso, i doveri di rispetto reciproco, di assistenza morale e materiale e di solidarietà che nascono dal rapporto coniugale."

E' quanto affermato dalla Corte di Cassazione che, con sentenza n. 7369 del 14 febbraio 2013, ha altresì precisato che ciò si desume dalla lettera della norma che, nella formulazione antecedente alle modifiche introdotte con L.1-10-2012, n. 172, punisce la condotta di chi sottoponga a maltrattamenti una persona della famiglia, senza richiedere che il vincolo familiare si accompagni necessariamente ad un rapporto di convivenza o di coabitazione.

Tale principio - sottolineano i giudici di legittimità - è stato specificatamente affermato anche in relazione al caso di sistematici atti di percosse, ingiurie, minacce e molestie da parte del marito nei confronti della moglie separata.

Laddove l'agente, come nel caso di specie, "perseveri nelle condotte integranti il reato di maltrattamenti, dopo la cessazione della convivenza, senza alcuno iato cronologico, si verifica una protrazione dell'arco temporale di esplicazione del reato di cui all'art. 572 c.p.". Accolto quindi il motivo di ricorso dell'imputato secondo il quale, in forza della clausola di sussidarietà di cui all'art. 612 bis c.p., quest'ultimo reato, così come i reati di cui agli artt. 594 e 660 c.p., deve considerarsi assorbito nel delitto di maltrattamenti. Non vi è stato, infatti, un momento in cui i maltrattamenti siano cessati e siano iniziate le condotte di minaccia, ingiuria, percosse ma la condotta criminosa si è snodata, senza soluzione di continuità, dando luogo ad un unico reato di maltrattamenti.

Rigettando invece l'altro motivo di ricorso dell'imputato, i Giudici di Piazza Cavour hanno poi ribadito, come da costante giurisprudenza di legittimità, che "se è vero che le dichiarazioni rese dall'imputato, nell'ambito del procedimento penale a suo carico, costituiscono, in linea di principio estrinsecazione del diritto di difesa, è altresì vero che l'animus defendendi non esclude la calunnia ove l'agente non si limiti a contestare i fatti attribuitigli ma finisca con l'incolpare persone che egli sa innocenti.". Nel caso preso in esame dalla Suprema Corte, la presentazione di una denuncia nei confronti della moglie da parte dell'ex marito, con esplicita formulazione di un'incolpazione inveridica, eccede l'ambito del diritto di difesa, collocandosi nell'area della rilevanza penale. Correttamente - si legge nella sentenza - la Corte d'Appello sottolinea come tale iniziativa travalichi il rapporto funzionale tra la confutazione dell'imputazione e la condotta tenuta dall'imputato e come quest'ultima, estrinsecandosi attraverso un autonomo atto di denuncia, avulso dal contesto dell'indagine preliminare che lo coinvolgeva, integri gli estremi del reato di calunnia.

Cassazione: incidente stradale e riconoscimento del danno esistenziale

"Nel nostro ordinamento non esiste l'autonoma categoria del danno esistenziale, in quanto, ove in essa si ricomprendano i pregiudizi che scaturiscono dalla lesione di interessi di rango costituzionale della persona, ovvero derivanti da fatti reato, essi sono già risarcibili ai sensi dell'articolo 2059 del codice civile, con la conseguenza che la liquidazione di una ulteriore voce di danno si risolverebbe in una non consentita duplicazione risarcitoria."

Sulla base di tale principio la Corte di Cassazione, con sentenza n.

3290 del 12 febbraio 2013, ha rigettato il ricorso di un uomo rimasto gravemente ferito in un incidente stradale. Secondo il ricorrente la sentenza del giudice di merito sarebbe errata nella parte in cui ha omesso di liquidare il danno esistenziale conseguente al sinistro sostenendo di aver concretamente dimostrato il proprio desiderio di entrare a far parte della Polizia di Stato, desiderio rimasto frustrato proprio a causa delle menomazioni patite, che avevano portato l'Amministrazione, all'esito della visita medica, a ritenerlo inidoneo per tale attività.

La Suprema Corte ha però affermato che "l'accertamento di postumi, incidenti con una certa entità sulla capacità lavorativa specifica, non comporta l'automatico obbligo del danneggiante di risarcire il pregiudizio patrimoniale, conseguenza della riduzione della capacità di guadagno derivante dalla ridotta capacità lavorativa specifica e, quindi, di produzione di reddito."

Tale danno patrimoniale sussiste - si legge nella sentenza - solo se l'invalidità abbia prodotto una riduzione della capacità lavorativa specifica e deve essere accertato in concreto; il danneggiato è tenuto a dimostrare di svolgere un'attività produttiva di reddito e di non aver mantenuto, dopo l'infortunio, una capacità generica di attendere ad altri lavori confacenti alle sue attitudini personali. Occorre, in altre parole, la dimostrazione che la riduzione della capacità lavorativa si sia tradotta in un effettivo pregiudizio patrimoniale. Nella specie la Corte d'Appello, prendendo in esame l'intera vicenda relativa al danno subito, è correttamente pervenuta alla conclusione secondo cui l'accertata diminuzione della capacità lavorativa del ricorrente non si è tradotta in alcuna perdita di reddito dato che il ricorrente quale impiegato di banca svolgeva una professione "tradizionalmente considerata come tranquilla, sicura e sedentaria".

Cassazione (3542/2013): anche bambino investito può essere corresponsabile dell'incidente


In materia di responsabilità da incidente stradale la Corte di Cassazione ha affermato che anche il comportamento colposo di un bambino può essere valutato per ridurre la responsabilità dell'automobilista che l'ha investito.

La decisione è della terza sezione civile della Corte secondo cui anche chi è incapace di intendere di volere può concorrere nella determinazione dell'evento dannoso. In sostanza troverebbe applicazione in questi casi l'articolo 1227 del
codice civile che nel comma 1 dispone: "Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate."

Come si legge nella parte motiva della sentenza la norma è richiamata dall'articolo 2056 codice civile secondo cui "Il risarcimento dovuto al danneggiato si deve determinare secondo le disposizioni degli articoli 1223, 1226 e 1227". Il giudice - spiegano i giudici di piazza Cavour - deve compiere questa valutazione anche d'ufficio in ogni Stato e grado del giudizio per stabilire il concorso di colpe e ridurre proporzionalmente il danno da risarcire.

Ma il punto chiave sta proprio in una corretta interpretazione dell'articolo 1227 del codice civile dove si fa riferimento al "fatto colposo" termini che sembrerebbero incompatibili o quantomeno inapplicabili al caso di minori o di persone incapaci di intendere e di volere. Secondo la Corte però l'espressione "fatto colposo" deve intendersi come sinonimo di comportamento oggettivamente in contrasto con una regola di condotta e non quale sinonimo di "comportamento colposo". Ciò era stato già in precedenza chiarito dalla stessa Corte con la sentenza numero n. 14548/2009 e, prima ancora, con la n. 4332/1994). Per maggiori informazioni alleghiamo qui sotto il testo della sentenza.
Vai al testo della sentenza 3542/2013

Cassazione: illegittimo il licenziamento per breve assenza ingiustificata

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 3179 dell'11 febbraio 2013, ha ribadito che il giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato è devoluto al giudice di merito, la cui valutazione non è censurabile in sede di legittimità, ove sorretta da motivazione sufficiente e non contraddittoria.

Nella fattispecie presa in esame dalla Suprema Corte una società aveva licenziato un lavoratore che aveva chiesto un permesso per recarsi presso l'ufficio infortuni della direzione generale dell'Azienda ubicato in luogo diverso e distante da quello presso il quale egli prestava servizio e che ad un successivo controllo era emerso che il dipendente non si era mai recato presso l'ufficio infortuni e che, pertanto si era allontanato dal posto di lavoro adducendo una giustificazione rivelatasi infondata.

Correttamente la Corte territoriale - secondo i giudici di legittimità - ha escluso la proporzionalità tra il fatto addebitato e la sanzione considerata l'oggettiva entità della durata della mancata prestazione lavorativa e della conseguente assenza ingiustificata di meno di tre ore; la mancata contestazione al lavoratore di un comportamento fraudolento peraltro neppure emerso dal materiale probatorio; la posizione lavorativa del dipendente non adibito a mansioni richiedenti un particolare grado di fiducia ed affidamento; l'assenza di disagi o disfunzioni nell'ambito dell'organizzazione aziendale cagionati dall'ingiustificata assenza .

La Corte territoriale ha valutato la gravità dell'inadempimento del lavoratore e l'adeguatezza della sanzione, con apprezzamento in fatto adeguatamente giustificato con motivazione esauriente. Il carattere fraudolento del comportamento del lavoratore non risulta essere stato contestato al lavoratore, né risultano evidenziate circostanze dalle quali desumere detto comportamento che non è ravvisabile nella sola richiesta del lavoratore di usufruire di un permesso.

Inoltre - si legge nella sentenza - il giudice di merito ha rilevato che il licenziamento non appariva proporzionato rispetto al fatto addebitato anche con riferimento alla disciplina del codice disciplinare per le assenze ingiustificate e per l'ipotesi in cui il lavoratore non offra integralmente la propria prestazione lavorativa per comportamenti ingiustificati ivi compresa l'ipotesi della sussistenza di un'aggravante.

La Corte, esaminata detta normativa, ha concluso, con interpretazione non oggetto di specifiche censure, che essa prevede una graduazione di sanzioni a partire da un solo giorno con la conseguenza che non poteva non tenersi conto dell'obiettiva entità e durata della mancata prestazione dell'attività lavorativa anche ove attuata dal dipendente trovandosi al di fuori del proprio ufficio.

Cassazione: no all'addebito della separazione al coniuge che abbandona casa per intollerbilità della convivenza. Il testo della sentenza

Abbiamo dato notizie ieri della recente sentenza della Cassazione in tema di separazione giudiziale. Si tratta dela sentenza n. 2183/2013 con cui la prima sezione civile della Corte di Cassazione, confermando le precedenti decisioni di mertito, ha precisato che deve escludersi l'addebito della separazione al coniuge che ha abbandonato la casa familiare per la convivenza divenuta intollerabile. Pubblichiamo ora qui sotto il testo integrale della sentenza.

Gli Ermellini hanno affermato che disimpegnarsi dall'unione costituisce un diritto costituzionalmente garantito e non può essere fonte di riprovazione giuridica, specialmente laddove detta decisione risulti adottata da persona in età matura all'esito di una lunga coabitazione non felice, mentre solitamente l'avanzare dell'età tende ad avvicinare i coniugi con il crescere delle necessità di assistenza reciproca, morale e materiale.

Secondo la ricostruzione della vicenda, la Corte d'appello di Firenze, in riforma della sentenza di primo grado, aveva escluso l'addebito della separazione dei coniugi, in favore della ex moglie che si era allontanata dalla casa coniugale, avendo poi chiesto la separazione. I giudici di secondo grado avevano ritenuto che l'abbandono, a un'età - settant'anni - in cui semmai "più naturale è il bisogno di vicinanza e di solidarietà morale e materiale" e dopo quasi cinquant'anni di un matrimonio nel complesso non felice, come dimostrato anche da una risalente separazione poi rientrata, trovava la sua ragione appunto in quella infelicità - almeno per la signora - nella quale ella, alla fine, non aveva avuto più la forza di continuare a vivere.

Del che non le si poteva muovere addebito una volta riconosciuto, anche nella giurisprudenza di legittimità (si fa espresso riferimento a Cass. 21099/2007), che nessuno può essere obbligato a mantenere una convivenza non più gradita, il disimpegnarsi dalla quale costituisce un diritto costituzionalmente garantito. Rigettando il motivo di ricorso dell'ex marito, i giudici di Piazza Cavour hanno spiegato che "con la riforma del diritto di famiglia del 1975 la separazione dei coniugi, com'è noto, è stata svincolata dal presupposto della colpa di uno di essi e consentita, invece, tutte le volte che "si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza" (art. 151 c.c. nel testo riformato).

Con la sentenza n. 3356 del 2007 questa Corte ha ampliato l'originaria interpretazione, di stampo strettamente oggettivistico, di tale norma - interpretazione secondo la quale il diritto alla separazione si fonda su fatti che nella coscienza sociale e nella comune percezione rendano intollerabile il proseguimento della vita coniugale - per dare della medesima norma una lettura aperta anche alla valorizzazione di "elementi di carattere soggettivo, costituendo la intollerabilità un fatto psicologico squisitamente individuale, riferibile alla formazione culturale, alla sensibilità e al contesto interno alla vita dei coniugi".

Ribadita, quindi, l'originaria impostazione oggettivistica quanto al (solo) profilo del controllo giurisdizionale sulla intollerabilità della prosecuzione della convivenza nel senso che le situazioni di intollerabilità della convivenza devono essere oggettivamente apprezzabili e giudizialmente controllabili - e puntualizzato che la frattura può dipendere, come già affermato da questa stessa Corte (Cass. 7148/1992) dalla condizione di disaffezione e di distacco spirituale anche di uno solo dei coniugi, ha concluso che in una doverosa "visione evolutiva del rapporto coniugale - ritenuto, nello stadio attuale della società, incoercibile e collegato al perdurante consenso di ciascun coniuge - (...) ciò significa che il giudice, per pronunciare la separazione, deve verificare, in base ai fatti obiettivi emersi, ivi compreso il comportamento processuale delle parti, con particolare riferimento alle risultanze del tentativo di conciliazione ed a prescindere da qualsivoglia elemento di addebitabilità, l'esistenza, anche in un solo coniuge, di una condizione di disaffezione al matrimonio tale da rendere incompatibile, allo stato, pur a prescindere da elementi di addebitabilità da parte dell'altro, la convivenza. Ove tale situazione d'intollerabilità si verifichi, anche rispetto ad un solo coniuge, deve ritenersi che questi abbia diritto di chiedere la separazione: con la conseguenza che la relativa domanda, costituendo esercizio di un suo diritto, non può costituire ragione di addebito".

Vai al testo della sentenza n. 2183/2013



 

Cassazione: siete una coppia di 'lunga data' infelice? Ok alla separazione senza addebito

Siete anziani, o forse sarebbe più consono e politicallycorrect dire agèe, e vi ritrovate a vivere un matrimonio che dà solo infelicità e frustrazione? Potete tranquillamente (!) separarvi senza che scattino addebiti di separazione.

Così è stato sancito dalla Prima sezione civile della Cassazione, nella sentenza 2183/2013, che si è appunto occupata del caso di una coppia fiorentina, che alla tenera età di 70 anni ha deciso di separarsi. E dopo aver passato insieme ben cinquant'anni.

A voler porre fine al matrimonio è stata la signora L.T., stanca ormai di accontentarsi di un rapporto causa di costante infelicità. Matrimonio che oltretutto in precedenza era stato messo in discussione dal comportamento del marito R.L., che se ne era andato via di casa per un periodo, interrotto con il suo ritorno a casa.

Secondo i giudici della Suprema Corte, "se si verifica la disaffezione al matrimonio, anche rispetto ad un solo coniuge, deve ritenersi che questi abbia diritto di chiedere la separazione: la domanda non costituisce ragione di addebito". Mantenendo così fede alla sentenza della Corte d'appello di Firenze che, il 23 gennaio 2008, aveva dichiarato la separazione personale, senza addebito, della coppia toscana. Anche in quest'occasione il giudice aveva fatto notare come l'abbandono - in un'età avanzata "in cui semmai e' più naturale il bisogno di vicinanza e di solidarietà morale e materiale" - non potesse essere motivo di colpa. Lasciando così insoddisfatta la richiesta del marito abbandonato.

Il suo ricorso in Cassazione è stato dunque inutile, pur tentando di dimostrare che la moglie non era riuscita a giustificare "la disaffezione" al loro rapporto durato ben mezzo secolo. Piazza Cavour ha respinto il ricorso di R.L. e ha evidenziato che "nessuno può essere obbligato a mantenere una convivenza non più gradita, il disimpegnarsi dalla quale costituisce un diritto costituzionalmente garantito e non può di per se' essere fonte di riprovazione giuridica e quindi causa di addebito".

Altro che crisi del settimo anno. Se si superano quelle ricordatevi che vi aspettano pure quelle del cinquantesimo anno!

Danni da vacanza rovinata: Cassazione, se le foto del depliant travisano la realtà

Corte di Cassazione, sentenza n. 1033 del 17 Gennaio 2013

In tema di tutela del consumatore - turista, al di là della pura applicazione della normativa contenuta nel recente Codice del Turismo (decreto legislativo 23 Maggio 2011, n. 79), la Corte di Cassazione Civile ha generato un importante precedente in merito alle modalità di riproduzione fotografica delle mete di vacanza prospettate al cliente tramite cataloghi, locandine, supporti cartacei e digitali in genere.

Nel caso di specie l'acquirente di un pacchetto vacanze "all inclusive" sottoscritto presso un'agenzia di viaggi, verificata la non conformità d'aspetto del luogo di villeggiatura rispetto alle immagini allo stesso sottoposte al fine di concludere l'affare, ha citato agenzia e tour operator al fine di ottenere il pieno ristoro del danno subito.

Lo stesso infatti ha prodotto in giudizio fotografie riproducenti il reale assetto del luogo di vacanza, chiedendo che queste fossero confrontate con quelle contenute nel depliant sulla base del quale era stato concluso il contratto. In tema probatorio, secondo l'articolo 2721 del codice civile è onere del resistente disconoscere la provenienza e l'autenticità delle riproduzioni addotte in corso di causa; circostanza non verificatasi poiché per i supremi giudici il tour operator avrebbe semplicemente ammesso che, nella composizione del materiale pubblicitario, "sarebbero potute" essere state utilizzate fotografie di locations differenti rispetto a quelle di destinazione effettiva.

Il turista scontento ha così ottenuto congruo risarcimento per la sua vacanza rovinata.

Cassazione: si ad assegno divorzile se se c'è differenza dei redditi

Quando un giudice pronuncia sentenza per dichiarare la cessazione degli effetti civili del matrimonio e pone a carico del marito l'obbligo di corrispondere alla ex moglie un assegno divorzile, si deve ritenere che la decisione sia adeguatamente motivata se il magistrato, analizzando la situazione patrimoniale di entrambi i coniugi, ha rilevato un notevole divario a vantaggio di lui.

E' quanto afferma la prima sezione civile della Corte (sentenza numero 2313/2013) che nella parte motiva della sentenza ricorda come l'assegno abbia lo scopo di ricostruire il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.

I giudici di merito hanno dunque correttamente applicato i criteri per la determinazione dell'assegno posto che la condizione patrimoniale della ex non le avrebbe consentito di mantenere quel tenore di vita.


Ricordiamo che questo principio è stato messo in discussione soprattutto sulla base del rilievo che l'aumento delle spese che consegue inevitabilmente alla fine di un'unione matrimoniale (doppio affitto, doppie bollette etc...), rende sostanzialmente impossibile garantire lo stesso tenore di vita.

Al di là del caso specifico richiamiamo il contenuto di un articolo pubblicato alcuni giorni fa: Corte d'Appello di Ancona: con separazione spese aumentano. Meno soldi alla ex

Corte d'Appello di Ancona: con separazione spese aumentano. Meno soldi alla ex.


Il principio secondo cui il coniuge obbligato a versare il mantenimento deve garantire all'altro lo stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, si scontra con la realtà dei fatti.
E' più che evidente, infatti, che dopo il crac matrimoniale le spese aumentano sensibilmente ed il tenore di vita si riduce: raddoppiano le bollette dell'acqua, della luce e del gas, si pagano due canoni Rai, doppio affitto etc... Insomma, per chi no lo sapesse, due case costano più di una sola! Senza dire poi che si si va in vacanza da soli si paga il supplemento single e l'elenco potrebbe continuare.

In questo contesto, se l'ex marito dovesse garantire alla moglie lo stesso tenore di vita goduto in passato inevitabilmente si troverebbe lui solo a dover stringere la cinghia.

Proprio per venire incontro al uno dei tanti padri separati che non ce la fa a sbarcare il lunario dovendo far fronte all'improvviso aumento delle sue spese mensili, la Corte d'Appello d'Ancona ha
ridotto l'assegno di mantenimento ad una ex moglie proprio sul rilievo che dopo la separazione le spese erano aumentate. Insomma se dopo la separazione si riduce il tenore di vita questo deve valere per entrambi.
Con la sentenza in questione (n.672/2012) la Corte ha ridotto da 700 a 500 Euro l'assegno di mantenimento che precedentemente il tribunale aveva posto a carico dell'ex marito che ha quindi proposto appello evidenziando che lo stipendio mensile, decurtato dell'assegno di mantenimento fissato dal primo giudice, non gli consentiva di arrivare a fine mese

Fonte: Corte d'Appello di Ancona: con separazione spese aumentano. Meno soldi alla ex.

Cassazione: infortunio sul lavoro e copertura assicurativa

"Secondo la disciplina di cui al D.P.R. n. 1124 del 1965, applicabile per il periodo antecedente all'entrata in vigore del decreto legislativo 23 febbraio 2000 n, 38 (che, all'art. 13, ha inserito il danno biologico nella copertura assicurativa pubblica), l'indennizzo previsto in caso di infortunio sul lavoro si riferisce esclusivamente alla riduzione della capacità lavorativa e, anche in base all'interpretazione della Corte costituzionale (sentenze n. 319 del 1981, n. 87 e 356 del 1991), non comprende una quota volta a risarcire il danno biologico, atteso che la configurabilità concettuale della duplice conseguenza (patrimoniale e non patrimoniale) del danno alla persona non significa che il diritto positivo prevedesse un "danno biologico previdenziale patrimoniale".

Sulla base di questo principio di diritto la Corte di Cassazione, con sentenza n. 2942 del 7 febbraio 2013, ha affermato che la richiesta di indennizzo del danno biologico e morale, quali voci non ricomprese nell'assicurazione obbligatoria ma eventualmente risarcibile per il lavoratore infortunato, porta dette voci complementari fuori dal sistema risarcitorio ex art. 10 e 11 D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124. e, quindi, fuori dell'ambito di operatività della polizza che fa riferimento ad una responsabilità civile su questi ultimi espressamente modellata, in luogo di quella codicistica ex art. 2043 c.c.

Precisano poi i giudici di legittimità che il richiamo, nella clausola contrattuale (secondo cui nel caso di specie "la Società si obbliga a tenere indenne l'assicurato di quanto questi sia tenuto a pagare (capitale, interessi e spese) quale civilmente responsabile ai sensi del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, artt. 10 e 11 per gli infortuni sofferti dai prestatori di lavoro da lui dipendenti"), degli artt. 10 ed 11 citati, non può essere considerato alla stregua di un "rinvio formale", che tenga conto delle diverse interpretazioni di tali norme succedutesi nel tempo, atteso che nel caso di polizza assicurativa, la copertura garantita non può essere variata nel corso del rapporto, a seconda delle mutevoli interpretazioni giurisprudenziali o dottrinali.

Vai al testo della sentenza 2942/2013

Cassazione: niente risarcimento a pedone distratto che inciampa su cordolo

Per poter richiedere il risarcimento dei danni da cose in custodia ai sensi dell'articolo 2051 del codice civile è necessario fornire la prova del nesso di causalità tra la cosa in custodia e il danno. Solo dopo che il danneggiato ha dimostrato il nesso causale il convenuto, che vuole liberarsi dall'obbligo risarcitorio, deve dimostrare il caso fortuito.

E' quanto chiarisce la terza sezione civile della Corte di Cassazione con sentenza 2660/2013 spiegando che, la prova del nesso causale diventa indispensabile soprattutto nei casi in cui "il danno non sia l'effetto di un dinamismo interno alla cosa, scatenato dalla sua struttura o dal suo funzionamento, ma richieda che al modo di essere della cosa si unisca l'agire umano ed in particolare quello del danneggiato, essendo essa di per sé statica e inerte".

Nel caso esaminato dai giudici di piazza Cavour è stata respinta la domanda di risarcimento danni rivolta alla pubblica amministrazione da un pedone che era inciampato su di un cordolo lasciato dagli operai che stavano eseguendo lavori di sistemazione del manto stradale.
Dopo essere inciampato il pedone era andato a sbattere contro un mucchio di pietre.

Il danneggiato, nel corso del processo, non aveva dimostrato che la situazione in cui si trova la strada potesse costituire un pericolo tenendo conto anche del normale livello di attenzione può essere richiesto agli utenti della strada.
In particolare la Corte fa rilevare come il danneggiato abitasse sul posto e pertanto potesse conoscere la situazione dei luoghi dato che li frequentava quotidianamente.

Cassazione: vietate le offese a sfondo sessuale nei confronti delle donne

La Cassazione sottolinea la gravità delle offese a sfondo sessuale rivolte alle donne. A dirlo è la quinta sezione penale, che ha preso in esame il caso di un uomo che sul posto di lavoro (un ospedale) si era rivolto ad una collega dicendole "sei una zo..."

Gli ermellini fanno notare come "Ogni volta che si deve offendere una donna è immancabile il riferimento ai presunti comportamenti sessuali della stessa; qualunque sia il ceto sociale di appartenenza, qualunque sia il grado di istruzione, qualunque sia la natura della discussione l'uomo di norma non accusa la sua avversaria donna di dire il falso ma di "essere una pu… o una zo..., con ciò non solo offendendo gravemente la reputazione della donna ma cercando di porla in una condizione di marginalità e minorità", ha dichiarato la Suprema Corte, negando anche l'attenuante della "reciprocità delle offese" proposta dall'imputato. Durante il diverbio, infatti, la donna accusava l'uomo di aver "brigato" per ottenere un incarico dal direttore.

La Cassazione ha dichiarato "davvero singolare che un uomo, che si presume di cultura, non si renda conto della gravità di un tale comportamento e invochi la reciprocità delle offese" e ha sottolineato la notevole differenza che intercorre tra le due offese rimarcando la gravità di quella perpetrata dall'uomo a discapito della donna.

Gli ermellini hanno inoltre ricordato come nelle discussioni tra colleghi accada che spesso "si faccia ricorso anche a ironie e perfino ad accuse di scarsa attenzione, di impreparazione, di eccessiva vicinanza al capo dell'ufficio e simili, che non possono rientrare però nella categoria del fatto ingiusto che legittima l'uso di frasi pesantemente volgari e offensive".

In merito al comportamento della donna, la Cassazione ha aggiunto come a seguito dei concorsi "chi è escluso ritiene, quasi sempre che ciò sia avvenuto ingiustamente e grazie alle 'manovre più o meno lecite' del concorrente vincitore", ma "insinuare che si siano adottati tali comportamenti, non costituisce una grave provocazione che può legittimare la reazione offensiva perché si tratta di considerazioni e valutazioni che non sono contrarie al vivere civile".

Niente da fare, quindi, per l'uomo, già condannato in primo grado e in appello: ora dovrà anche risarcire la collega e prendersi carico delle spese processuali.