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lunedì 6 marzo 2023

LE VIDEOREGISTRAZIONI

Quando la videosorveglianza risulta illecita - Italsicurezza


Sentenza della Corte Suprema di Cassazione n. 6812/2013 della II Sezione Penale

 

Le riprese vengono analizzate dalla Suprema Corte quali prove documentali nel processo penale e la stessa sentenza analizza altresì anche, in via incidentale, la materia della Privacy. 

La controversia si riferisce al caso di un imputato, condannato per i reati di tentata estorsione, molestie, danneggiamento ed ingiurie a cui si è pervenuti grazie anche ad alcuni filmati ricavati da un impianto di videosorveglianza installato all’esterno del negozio della persona offesa. 

 

Il condannato ha quindi proposto ricorso per Cassazione, tra l’altro assumendo che tali videoregistrazioni erano state effettuate in violazione del codice della privacy e pertanto non potevano essere utilizzate, trattandosi di prova illegittimamente acquisita, ex art. 191 c.p.p. (il quale testualmente recita: le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzati).

 

La Corte di cassazione in tale sentenza chiarisce quindi che le videoregistrazioni dell’impianto di sorveglianza apposto dalla persona offesa all’esterno del suo negozio non possono essere considerate prove illegittimamente acquisite ai sensi dell’art. 191, trattandosi di prove documentali di cui il codice di rito espressamente consente l’acquisizione. 

 

In tale contesto, è del tutto irrilevante che le registrazioni siano state effettuate in conformità o meno delle istruzioni del Garante per la Protezione dei dati personali, non costituendo la disciplina sulla privacy sbarramento all’esercizio dell’azione penale. 

 

Con riferimento alle videoriprese effettuate dalla Polizia giudiziaria, questa Corte ha avuto modo di statuire che sono legittime le videoriprese, eseguite dalla polizia giudiziaria, in assenza di autorizzazione del giudice, mediante telecamera esterna all’edificio e aventi per oggetto l’inquadramento del davanzale della finestra e del cortile dell’abitazione, trattandosi di luoghi esposti al pubblico e, pertanto, oggettivamente visibili da più persone. Ne deriva che, in virtù di detta percepibilità esterna, non sussiste alcuna intrusione nella privata dimora o nel domicilio e non sussistono, pertanto, le ragioni di tutela, sub specie di diritto alla riservatezza o alla “privacy”, ad essi connesse, potendosi, in tal caso, sostanzialmente equipararsi l’uso della videocamera ad una operazione di appostamento, eseguita nei limiti dell’autonomia investigativa, senza alcuna necessità di autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 10697 del 24/01/2012 Ud. (dep. 19/03/2012) Rv. 252673).

 

Nella sentenza si fa quindi riferimento alle prove documentali del nostro codice di procedura penale, ovvero a quelle previste dall’articolo 234 c.p.p. il quale recita testualmente: “E’ consentita l’acquisizione di scritti o di atri documenti che rappresentano fatti persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo”. 

 

La Cassazione quindi afferma che, se anche l’agente ha violato il codice della Privacy ciò non impedisce a quella immagine di entrare lecitamente nel processo penale come prova documentale. Attenzione però ai risvolti giudiziari, in quanto seppur vero che l’immagine viene lecitamente acquisita nel processo penale però è altrettanto vero che l’art. 330 c.p.p. impone al pubblico ministero, una volta appresa la notizia di reato, di perseguire il presunto responsabile per il reato a lui ascritto. 


Ridotto ai minimi termini se l’investigatore privato acquisisce un’immagine violando le norme sulla Privacy lo stesso, certamente, può farle valere in sede penale ma successivamente dovrà difendersi, sempre in sede penale, per l’infrazione al codice sulla protezione dei dati personali qualora si accerti che sia stato violato.

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