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martedì 2 aprile 2013

Cassazione: legittima l'acquisizione di videoregistrazione di luogo pubblico anche senza autorizzazione del gip


Cassazione Penale, sentenza n.6812 del 12 Febbraio 2013

L'art. 234 del
codice penale (prova documentale) enuncia il principio secondo il quale è espressamente consentita l'acquisizione di documentazione utile alla decisione "che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo". Nel caso di specie ha proposto ricorso la difesa di un imputato condannato in secondo grado sostenendo l'inutilizzabilità dei filmati acquisiti durante i vari gradi di giudizio, registrazioni che sono state alla base della sentenza di condanna.
La Cassazione ha ricordato come invece la produzione di una videoregistrazione di un impianto di sorveglianza esterno sia legittima e faccia piena prova. A nulla rileva il fatto che la stessa sia stata procurata in violazione della normativa privacy poiché questa circostanza opera autonomamente, non interessando il piano penale. E' infatti sempre ammessa come prova documentale la videoregistrazione acquisita dalla Polizia Giudiziaria a mezzo telecamera posizionata sull'esterno, luogo aperto al pubblico.
Trattandosi di un luogo di passaggio è oggettivamente visibile da più persone e di conseguenza agli agenti non occorre previo provvedimento autorizzatorio del Giudice delle indagini preliminari (non essendo classificata come ripresa in luogo privato, non può neanche in alcun modo violare la garanzia alla privacy). L'autonomia investigativa prevale e nella pronuncia in oggetto la Suprema Corte, uniformandosi ad un orientamento costante, ha ribadito questo concetto.
Testo della sentenza 6812/2013

Cassazione: lo jusvariandi nei confronti del lavoratore assunto per sostituirne uno assente

"Il lavoratore assunto a termine ai sensi dell'art. 1, secondo comma, lett. b) della legge n. 230 del 1962, per la sostituzione dì un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, non deve essere necessariamente destinato alle medesime mansioni e/o allo stesso posto del lavoratore assente, atteso che la sostituzione ipotizzata dalla norma va intesa nel senso più confacente alle esigenze dell'impresa; pertanto, non può essere disconosciuta all'imprenditore - nell'esercizio del potere autorganizzatorio - la facoltà di disporre (in conseguenza dell'assenza di un dipendente) l'utilizzazione del personale, incluso il lavoratore a termine, mediante i più opportuni spostamenti interni, con conseguente realizzazione di un insieme dì sostituzioni successive per scorrimento a catena, sempre che vi sia una correlazione tra assenza ed assunzione a termine, nel senso che la seconda deve essere realmente determinata dalla necessità creatasi nell'azienda per effetto della prima".

E' quanto ribadito dalla Corte di Cassazione che, con sentenza n. 6787 del 19 marzo 2013, rigettando il ricorso di una lavoratrice volto ad ottnere l'accertamento della nullità del termine apposto al contratto di lavoro a tempo determinato e all'accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ha altresì precisato che "tale orientamento interpretativo vale anche a disciplinare le fattispecie relative a contratti a termine per ragioni sostitutive ricadenti nel regime di cui alla legge n. 56 del 1987. Questa ha attribuito alla contrattazione collettiva l'identificazione delle ipotesi nelle quali è ammissibile l'apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato, che possono essere anche diverse e più ampie di quelle previste dalla legge 18 aprile 1962 n. 230, inserendosi pur sempre nel sistema delineato dalla tale legge."

I Giudici di legittimità hanno inoltre chiarito che in merito alla necessità che occorra una "correlazione di tipo causale" tra l'attività del lavoratore assunto in sostituzione e quella del lavoratore sostituito, per potere affermare che l'assunzione sia comunque riconducibile alla sostituzione di un lavoratore assente, impedito a svolgere la prestazione, la valutazione della sussistenza di questo rapporto di correlazione causale costituisce giudizio di merito, come tale non sindacabile in sede di legittimità, quando la relativa motivazione sussista, sia sufficiente e non sia contraddittoria.

Nel caso in esame, il giudice di appello ha ravvisato la sussistenza di tali presupposti, avendo accertato la correlazione causale tra le diverse posizioni lavorative interessate dallo scorrimento. Nella stessa logica ed entro gli stessi limiti deve ritenersi - si legge nella sentenza dei giudici di Piazza Cavour - che "in caso di assunzione a termine di un lavoratore in sostituzione dì un altro assente, per il periodo dell'assenza, il datore potrà esercitare nei confronti del lavoratore a termine quel medesimo jusvariandi che avrebbe potuto esercitare nei confronti del lavoratore sostituito."

Cassazione: infortunio in itinere, no al risarcimento se la scelta di utilizzare il mezzo privato non è necessitata


La Corte di Cassazione, con sentenza n. 6725 del 18 marzo 2013, ha affermato che "«il rischio elettivo» configurato come l'unico limite alla copertura assicurativa di qualsiasi infortunio, in quanto ne esclude l'essenziale requisito della «occasione di lavoro», assume, con riferimento all' «infortunio in itinere», una nozione più ampia, rispetto all'infortunio che si verifichi nel corso della attività lavorativa vera e propria, in quanto comprende comportamenti del lavoratore infortunato di per sé non abnormi, secondo il comune sentire, ma semplicemente contrari a norme di legge o di comune prudenza.

Sulla base di tale principio la Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto da un lavoratore che, nel percorrere il percorso casa-lavoro, a bordo del proprio motoveicolo, al fine di raggiungere il posto di lavoro, aveva subito, seguendo l'abituale percorso, un incidente con un autoveicolo che aveva cambiato bruscamente direzione di marcia senza effettuare alcuna segnalazione.

Il ricorrente aveva chiesto la costituzione in via amministrativa di una rendita da infortunio ma la Corte d'Appello aveva ritenuto l'insussistenza della necessità dell'uso del veicolo privato, adoperato dal lavoratore, per il collegamento tra abitazione e luogo di lavoro, considerati i suoi orari di lavoro e quelli dei pubblici servizi di trasporto ed aveva affermato che la scelta del ricorrente di usare il mezzo privato non fosse necessitata.

I Giudici di legittimità, ritenedo che la sentenza impugnata non si discosta dal principio di diritto enunciato, laddove nega la copertura assicurativa al dedotto infortunio (incontrovertibilmente) in itinere - in dipendenza della configurazione, come rischio elettivo appunto, del comportamento del lavoratore che lo ha determinato - all'esito di accertamento di fatto che, peraltro, risulta incensurabile, sotto il profilo del vizio di motivazione, precisa che "anche a volere ammettere che lo stesso ricorrente avesse la necessità di utilizzare il mezzo proprio per l'assenza di soluzioni alternative al detto uso, la decisione impugnata risulta, tuttavia, adeguatamente sorretta dal concorrente accertamento che, in ogni caso, il tragitto era percorribile a piedi ovvero utilizzando un mezzo di trasporto pubblico. Infatti, alla luce del principio di diritto enunciato, tanto basta - per configurare, nella dedotta fattispecie, il rischio elettivo" - e per rigettare, di conseguenza, il ricorso.".

In tema di infortunio "in itinere" - si legge nella sentenza - il requisito della "occasione di lavoro" implica la rilevanza di ogni esposizione a rischio, indipendentemente dal grado maggiore o minore di questo, assumendo il lavoro il ruolo di fattore occasionale del rischio stesso ed essendo il limite della copertura assicurativa costituito esclusivamente dal "rischio elettivo", intendendosi per tale quello che, estraneo e non attinente alla attività lavorativa, sia dovuto ad una scelta arbitraria del lavoratore, il quale crei ed affronti volutamente, in base a ragioni o ad impulsi personali, una situazione diversa da quella inerente alla attività lavorativa, ponendo così in essere una causa interattiva di ogni nesso tra lavoro, rischio ed evento.

"La valutazione dell'inerenza del rischio all'attività lavorativa ed alle sue modalità costituisce un apprezzamento di fatto di competenza del giudice del merito che, nella specie, con motivazione coerente ai principi di diritto enunciati e priva di salti logici, è pervenuto alla conclusione che il lavoratore non avesse diritto a copertura assicurativa, essendo stata la scelta del mezzo personale dettata da ragioni che, seppure legittime, non assumono uno spessore sociale tale da giustificare un intervento di carattere solidaristico a carico della collettività."

Cassazione: lavoratore che denuncia illeciti non può essere licenziato


Può un dipendente essere licenziato per aver denunciato dei presunti illeciti della propria azienda alla magistratura? No. Lo ricorda la Corte di Cassazione con la sentenza 6501/2013, che ha preso in esame il caso di un dipendente licenziato per aver presentato un esposto alla procura della Repubblica di Napoli in merito a delle irregolarità relative ad un appalto per la manutenzione di semafori.

L'uomo, che aveva denunciato irregolarità insieme ad altri cinque colleghi, era stato accusato di diffamazione dalla società per la quale lavorava, per aver allegato alcuni documenti aziendali nell'esposto presentato ai pm.

"Non costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento l'aver il dipendente reso noto all'autorita' giudiziaria fatti di potenziale rilevanza penale accaduti presso l'azienda in cui lavora ne' l'averlo fatto senza averne previamente informato i superiori gerarchici, sempre che non risulti il carattere calunnioso della denuncia o dell'esposto", è quanto si legge nella sentenza dei giudici di Piazza Cavour.

La Cassazione ha inoltre aggiunto che "va escluso, in punto di diritto, che il denunciare od esporre all'A.G. fatti potenzialmente rilevanti in sede penale sia contegno extralavorativo comunque idoneo a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra lavoratore e datore di lavoro, vuoi perché si tratta di condotta lecita e certamente non contraria ai doveri civili (è addirittura penalmente doverosa nelle ipotesi di obbligo di denuncia o di referto: cfr, artt, 361 e ss. c.p.), vuoi perché il rapporto fiduciario in questione concerne l'affidamento del datore di lavoro sulle capacità del dipendente di adempiere l'obbligazione lavorativa e non già sulla sua capacità di condividere segreti non funzionali alle esigenze produttive e/o commerciali dell'impresa".



Cassazione: sotto processo anche la madre se non impedisce l'abuso sessuale sul minore

La delicata tematica degli abusi sessuali sui minori è stata recentemente arricchita da un'autorevole pronuncia della Cassazione Penale; la Sezione III, con la n. 4127/2013 ha confermato la colpevolezza del genitore che omissivamente non impedisce l'evento lesivo (violenza sessuale) ai danni del figlio.

La problematica sottende la risoluzione di alcuni quesiti giuridici, quali la punibilità penalmente sanzionabile della condotta omissiva, il contenuto dell'obbligo di attivarsi in virtù dell'obbligo di garanzia gravante sul genitore e l'obbligo di denuncia in ragione del fatto che si è venuti a conoscenza della condotta illecita perpetrata sotto condizione obbligatoriamente garantita.

Partendo dal dato empirico, nel caso di specie, si tratta di un caso di abusi sessuali in danno ad un minore, da parte di un terzo soggetto estraneo alla famiglia nucleare, con la madre del minore a conoscenza degli incontri.

In merito alla prima questione, la colpevolezza omissiva trae origine dall'art. 40, comma 2 c.p., per cui "non impedire l'evento che si aveva l'obbligo di impedire, equivale a cagionarlo".

In tal senso, rispondendo al secondo quesito circa l'obbligo giuridico di impedire l'evento, essa si sostanzia concretamente sul gravame impeditivo in capo ad soggetto individuato, con adeguati poteri o facoltà a tutela di beni giuridici protetti.

Da ciò si deriva che la posizione di garanzia del genitore nei confronti del figlio rientra tra quelle garantite e (in risposta al terzo quesito) pur non sussistendo un obbligo di denuncia, sussiste l'obbligo di porre in essere tutti gli atti idonei affinché si facciano cessare le condotte illecite. Coerentemente, la Cassazione ha disposto la colpevolezza della condotta materna.

Cassazione: per il ricongiungimento familiare occorre una situazione di "emergenza psichica" dei minori


Cassazione Civile, sezione sesta, sentenza n. 4721 del 25 Febbraio 2013

Il d.lgs. 286/1998 (Testo Unico sull'immigrazione") detta norme specifiche in materia di permesso di soggiorno (titolo II e titolo IV). In particolare, l'art. 31 (disposizioni a favore dei minori) consente al Tribunale per i minorenni di derogare ai limiti di accesso e di soggiorno ai familiari del minore regolarmente soggiornante in Italia per gravi motivi legati alla salute fisica e mentale del piccolo.
Venuti meno questi gravi motivi, l'autorizzazione viene ritirata e ne cessano gli effetti.

Nella sentenza in oggetto La Suprema Corte, respingendo il ricorso di un immigrato, ha sottolineato come, al fine di ottenere l'autorizzazione di permanenza in Italia per vivere con i figli minori e la compagna, occorre provare che gli stessi si trovino in una situazione di grave disagio psichico, essendo venuta quindi a crearsi una vera e propria situazione di emergenza per il corretto sviluppo psicofisico dei bambini. Non basta quindi soltanto la mera indicazione di necessità di entrambe le figure genitoriali: l'interpretazione data dalla Corte di Cassazione è restrittiva, volta ad evitare che situazioni di clandestinità possano essere facilmente trasformate adducendo vaghe motivazioni fondate su esigenze familiari non meglio specificate.
Vai al testo della sentenza 4721/2013

Cassazione: il danno provocato dalla concorrenza sleale va provato

Sentenza Cassazione Civile, sezione prima, n. 5848 dell' 8 Marzo 2013

La fattispecie della concorrenza sleale, perseguibile ai fini civili ex art. 2598 codice civile, è integrata nel caso in cui un'azienda adotti comportamenti idonei a screditare un'impresa concorrente o a indurre confusione nel pubblico all'atto della scelta del prodotto (c.d. pubblicità ingannevole).
La norma in oggetto fornisce un elenco dei comportamenti denigranti, non esaustivo ma meramente esplicativo, adottando in chiusura la formula generica del "si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda". Una sua integrazione implica l'obbligo per l'azienda colpevole di rimuovere a proprie spese le cause del pregiudizio arrecato, nonché la condanna al risarcimento del danno a favore dell'azienda danneggiata.

Perchè tale fattispecie sia integrata occorre tuttavia che la danneggiata provi sia la reale perdita patrimoniale subita, sia la non futilità del danno ricevuto. Le informazioni screditanti devono poi essere state rivolte ad un pubblico indistinto o comunque ad una platea consistente: nel caso in oggetto non sono stati provati alcuni dei predetti requisiti, essendo state le informazioni screditanti comunicate a singoli individui, in un contesto limitato e soltanto occasionalmente.
La Suprema Corte ha dunque respinto la richiesta di risarcimento del danno di un'impresa che non è stata in grado di provare tutti questi elementi, nemmeno tramite presunzioni semplici.
Vai al testo della sentenza 5848/2013


Cassazione: illegittimo il licenziamento della lavoratrice sorpresa a lavorare in un bar durante l'assenza per infortunio

Non sempre lo stato di malattia impedisce di svolgere una diversa attività lavorativa. Come spiega la Corte di Cassazione "Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, oltre che nell'ipotesi in cui tale attività esterna sia per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione (ipotesi neppure ipotizzata nella fattispecie in esame), anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio "ex ante" in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio, con conseguente irrilevanza della tempestiva ripresa del lavoro alla scadenza del periodo di malattia.

E' quanto si legge nella sentenza n. 5809 dell'8 marzo 2013 con cui la Corte ha rigettato il ricorso proposto da una Società avverso la decisione con cui il giudice d'Appello riteneva illegittimo il licenziamento intimato alla dipendente per essere stata notata a prestare attività lavorativa presso un bar durante l'assenza dal lavoro per infortunio.

Alla luce delle risultanze istruttorie, il giudice di merito aveva escluso che l'attività prestata dalla lavoratrice nel bar potesse pregiudicare o ritardare la sua guarigione e aveva precisato che il mero fatto addebitato, senza alcuna altra specificazione riguardante l'eventuale compromissione o ritardo della guarigione della infermità, non costituiva di per sé violazione di un qualche obbligo gravante sulla lavoratrice e che nella fattispecie la valutazione ex ante portava comunque ad escludere che l'attività prestata dalla dipendente nel bar potesse pregiudicare o ritardare la sua guarigione, in considerazione della natura dell'infermità (trauma alla caviglia), della attività svolta e del dato temporale (ultimi tre giorni prima della prevista ripresa del lavoro).

Tale accertamento di fatto - affermano i giudici di legittimità - oltre che conforme al principio di diritto sopra ribadito, risulta congruamente motivato e resiste alle censure della società ricorrente e nel caso di specie è anche evidente che la Corte di merito, escludendo che la lavoratrice abbia in qualche modo violato i propri obblighi di correttezza e buona fede, ha in sostanza escluso la legittimità del licenziamento anche sotto il profilo del giustificato motivo soggettivo.

Infortuni sul lavoro: Cassazione, datore che non ha valutato rischi da stress da lavori ripetitivi risponde di lesioni colpose

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 11062 dell'8 marzo 2013, ha affermato che "in tema di reati colposi, la causalità si configura non solo quando il comportamento diligente imposto dalla norma a contenuto cautelare violata avrebbe certamente evitato l'evento antigiuridico che la stessa norma mirava a prevenire, ma anche quando una condotta appropriata avrebbe avuto significative probabilità di scongiurare il danno".

Nel caso preso in esame dalla Suprema Corte, un lavoratore, addetto a lavori di pulizia, mentre stava salendo lungo una scala a pioli cadeva dalla stessa riportando lesioni che ne determinavano una malattia guaribile in un tempo superiore a quaranta giorni.

Al datore di lavoro veniva ascritto non solo di non aver operato la valutazione del rischio da caduta dall'alto, da posture incongrue, ma anche di aver omesso di valutare i rischi connessi allo stress da lavoro ripetitivo.

Il primo giudice riteneva accertato, sulla scorta delle dichiarazioni della persona offesa, che la caduta era dovuta all'eccessiva stanchezza del lavoratore, giunto alla fine della giornata lavorativa all'ultimo vetro da pulire e riteneva altresì che tanto la stanchezza che la conseguente caduta fossero da ascrivere alla mancata valutazione dei rischi che qualora eseguita avrebbe consentito di prevedere modalità operative tali da ridurre lo stress da lavoro ripetitivo e da postura.

Riteneva quindi il Tribunale che tra la trasgressione cautelare e l'infortunio sul lavoro subito vi fosse un nesso eziologico, poiché l'evento era stato determinato "dalla situazione di stress e di stanchezza del lavoratore, dovuta all'effettuazione in serie di un lavoro ripetitivo e che richiedeva una postura e dei movimenti disergonomici", con accentuazione dei rischi "a causa delle modalità operative correnti, quali il trasporto delle necessarie attrezzature di pulizia da parte del lavoratore, durante la salita sulla scala, e la necessità dì svolgere il lavoro in tempi estremamente ristretti".

Non vi è alcun dubbio - affermano i giudici di legittimità - che nella sequenza degli accadimenti che esitarono nell'infortunio del lavoratore non intervenne alcun fattore estraneo all'esecuzione del lavoro, sicché è altamente probabile che se quelle condizioni di lavoro fossero state differenti (quelle poste in essere dopo il sinistro ovvero la previsione di una "apposita procedura, che limita la durata di tali operazioni, per evitare affaticamenti e rischi derivanti da lavori ripetitivi", con l'assegnazione del lavoratore ad altra mansione che non comporti affaticamento bio-meccanico ogni due ore di lavoro di pulizia di vetri con scale o trabatelli, nonché altre misure ancora dirette a fronteggiare i rischi in questione) l'infortunio non si sarebbe verificato.


La Cassazione da il via libera alla classaction contro Equitalia

Le cose si fanno un po' più semplici per i cittadini alle prese con le cartelle esattoriali di Equitalia.

A dispetto di quanto finora sostenuto dalle amministrazioni finanziarie, è infatti possibile esperire la classactionanche nei procedimenti tributari, purché i motivi di impugnazione siano i medesimi per tutti i ricorrenti.

Lo stabilisce la Corte di Cassazione, con sentenza n. 4490 del 22 febbraio 2013. In precedenza si riteneva che si dovesse escludere l'ammissibilità di azioni collettive per la contestazione delle cartelle di pagamento considerate illegittime, in base al disposto di cui all'art.18 del D.Lgs. 546 del 1992 ai sensi del quale «ogni atto autonomamente impugnabile può essere impugnato solo per vizi propri».

Gli Ermellini hanno invece chiarito che il principio della unicità dei procedimenti sancito nel predetto decreto non viene affatto compromesso dal cumulo dei ricorsi; anzi, nulla impedisce che anche nel contenzioso tributario possa farsi luogo alla riunione dei processi intentati da soggetti diversi avverso titoli di riscossione diversi, allorché la decisione della causa dipenda «totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni» di fatto o di diritto.

Come è facile intuire, lo "sdoganamento" delle azioni collettive anche in questo settore porta con sé vantaggi non indifferenti per i consumatori, che da oggi avranno meno remore a far valere i propri diritti nei confronti del riscossore nazionale. Ciascun membro della "classe" potrà infatti beneficiare di un sensibile abbattimento dei costi burocratici e delle spese legali del processo, e del tipico effetto "ultra partes" della sentenza eventualmente favorevole.



Cassazione: preliminare di vendita, clausola di esclusione di responsabilità e sopravvenuta impossibilità di stipula del contratto definitivo


Cassazione Civile, sezione seconda, sentenza n. 5033 del 28 Febbraio 2013
Il contratto preliminare di vendita di un immobile è un patto che genera in capo alle parti l'obbligo di stipulare il contratto di vendita definitivo. Contraendo tale accordo il venditore dovrà mettere l'acquirente nelle condizioni di poter liberamente ed interamente godere dell'immobile prossimo alla vendita, mentre il futuro acquirente dovrà versare una caparra (c.d. caparra confirmatoria), una somma di denaro a garanzia dell'effettiva volontà d'acquisto. Nel caso in cui una delle due parti risulti inadempiente ai propri obblighi il danneggiato può efficacemente chiedere la risoluzione del contratto per inadempimento (art. 1453 codice civile, della disciplina dei contratti in generale).

Nel caso di specie le parti hanno inserito nel preliminare di vendita una clausolaescludentela risoluzione del contratto per colpa del venditore. Nei fatti l'immobile promesso è risultato non rispettante le vigenti norme urbanistiche della zona: la Suprema Corte ha ritenuto non operante la suddetta clausola poiché l'abusività dell'edificio costituisce di per sé causa di impedimento alla stipulazione del contratto definitivo e, di conseguenza, ha ritenuto legittima la richiesta del promissario acquirente il quale pretendeva la restituzione della caparra versata al momento della stipula del preliminare di vendita. Essendo la causa impeditiva imputabile al futuro venditore, egli è stato riconosciuto inadempiente e di conseguenza condannato alla restituzione della somma di denaro ora detenuta senza titolo, unitamente al risarcimento del danno causato.

Cassazione: non si può imporre il taglio dei capelli. È violenza privata.

Se per molte donne andare dal parrucchiere resta uno dei piccoli piaceri della vita, per alcune invece ritrovarsi con un aspirante coiffeur in casa, che decide di dare un taglio non desiderato alla loro chioma, non è proprio cosa gradita. Anzi diventa una violenza vera e propria.

Ce lo rammenta una recente sentenza della V sezione penale della Cassazione, la 10413/13, che ha per protagonista un uomo appartenente all'arma dei Carabinieri. Il 39enne ha optato per tagliare di netto i capelli della moglie, dopo aver scoperto un suo tradimento.

Per il quale la donna si era anche presa un pugno (senza però fare esposto).

L'uomo era stato condannato in primo gra do, il 25 gennaio 2006, per il reato di violenza privata aggravata(art.81 cp), proprio per aver imposto il taglio di capelli, minacciando inoltre la moglie di sfregiarla brandendo le forbici. Sentenza confermata anche dalla Corte d'appello di Genova l'8 febbraio 2012.

L'uomo ha tentato così la via del ricorso alla Suprema Corte, respinto però dagli ermellini per un vizio procedurale: "la difesa aveva sostenuto che i fatti accertati dovessero integrare, invece, i reati di ingiuria (taglio imposto per umiliare la donna) e minacce (di sfregio con le forbici)".

E invece non si era proceduto in tal senso. Inoltre era stato anche ignorato il rilievo della difesa secondo il quale l'uomo, brandendo le forbici appunto, avesse intenzionalmente voluto minacciare la moglie, per avere dettagli del tradimento, e non per darle semplicemente una sistemata al taglio. Inoltre lo stesso imputato aveva sì ammesso di aver colpito la moglie con il pugno, ma di aver operato il taglio dei capelli solo per aiutarla a fare ciò che lei cercava di fare da sola.

La Suprema Corte ha condiviso la decisione del giudice del merito sul reato di violenza privata aggravata che «punisce non già il mero atto di umiliazione della persona offesa, ma quello posto in essere facendo ricorso alla violenza o alla minaccia ed estrinsecatosi nell'imposizione di un comportamento o di una omissione in violazione della libertà morale». Gli ermellini hanno anche condiviso l'aumento di pena relativo alle aggravanti di minaccia e ingiuria.

venerdì 29 marzo 2013

Cassazione: illegittimo il sequestro preventivo dei beni aziendali per il reato di evasione fiscale

Corte di Cassazione Penale, sentenza n. 9576 del 28 febbraio 2013
Il sequestro preventivo è quello strumento a disposizione del PM che permette alle autorità di esercitare il controllo su determinati beni, sottraendoli alla disponibilità dell'indagato, beni che sono strettamente collegati al reato per cui si sta indagando. L'applicazione di tale misura, assai invasiva, è sottoposta però a limiti molto rigidi: il Pubblico Ministero può proporre istanza al GIP, il quale potrà accettare la richiesta disponendo il sequestro a mezzo decreto motivato (art.321 c.p.p.) soltanto nel caso in cui vi sia concreto pericolo di reiterazione del reato o di commissione di nuovi reati se il bene rimanesse nella disponibilità dell'indagato o ancora se il bene stesso sia dotato di pericolosità intrinseca (periculum in mora).

Nel caso in oggetto ad un'azienda, il cui amministratore è indagato per evasione fiscale, è stata applicata in secondo grado la misura cautelare del sequestro preventivo. La misura avrebbe avuto ad oggetto la quota di patrimonio aziendale equivalente alla somma presumibilmente evasa.

La Suprema Corte ha tuttavia ritenuto illegittimo tale provvedimento, annullando di conseguenza l'ordinanza impugnata, poiché la situazione di fatto sarebbe stata carente degli elementi necessari all'applicazione di tale misura: il Giudice competente avrebbe concesso la misura sfruttando una "motivazione apparente", non avendo il PM adeguatamente sviluppato argomentazioni a contrario rispetto al dato giuridico della separazione tra patrimonio aziendale e gestione dello stesso posta in essere dall'amministratore responsabile. Mancando il periculum in mora, requisito fondamentale per l'applicazione di questa misura cautelare, la Suprema Corte ha statuito che in questa particolare situazione il sequestro preventivo non può essere concesso.


Cassazione: Padre disoccupato e madre benestante? Se lui non mantiene la figlia commente comunque reato


Il mancato versamento dell'assegno di mantenimento per i figli da parte dell'ex marito disocccupato costituisce reato, anche se la madre è benestante e gode di mezzi economici sufficienti per occuparsene. E' quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 10147/2013.

A essere condannato è stato un ex coniuge che si era rifiutato di lasciare alla moglie la casa coniugale (art 388 comma II cp) e che non era stato puntuale nel versare il mantenimento, ritardandolo fino a quattro mesi (art 570 comma II cp).

Non ha fatto breccia presso la Corte la tesi della difesa, secondo la quale l'ex moglie, in quanto in possesso di adeguati mezzi economici, sarebbe stata in grado di provvedere ai bisogni della figlia minore. Per la Suprema Corte, infatti, è ininfluente il fatto che la madre avesse predisposto per la figlia la sufficienza dei mezzi di sostentamento.

La motivazione è che lo stato di bisogno dei figli minori permane anche nei casi in cui sia la madre a provvedere alla somministrazione dei mezzi di sussistenza.

Inoltre, secondo la Cassazione, l'asserita insufficienza economica non è da considerarsi rilevante quando "non venga dimostrato, su impulso del soggetto interessato, l'oggettiva impossibilità di adempiere". Dichiarare la propria condizione di disoccupato, infatti, non esclude in radice altre possibili fonti di reddito e di conseguenza non solleva il padre dalla responsabilità di commettere il reato di omessa prestazione dei mezzi di sussistenza. In conclusione, l'ex marito è tenuto a corrispondere puntualmente l'assegno di mantenimento per i figli, a prescindere dalle condizioni economiche della madre. A meno che non dimostri di essere realmente impossibilitato a farlo.

Cassazione: si può licenziare dipendente che diffonde notizia della prossima chiusura della società

Di certo non è un'idea felice quella di diffondere la notizia che la società presso cui si lavora sta per chiudere. Specialmente se la notizia arriva anche nelle orecchie dei clienti.

A fronte di un simile comportamento la Corte di Cassazione, con sentenza n. 4859 del 27 febbraio 2013, ha affermato che il datore di lavoro può legittimamente licenziare il dipendente.

La vicenda prese in esame dai giudici di piazza Cavour riguarda un licenziamento intimato ad un lavoratore che aveva diffuso la notizia della prossima chiusura della società e in particolare della struttura operativa presso la quale il dipendente svolgeva la propria attività .

Confermando la decisione della Corte d'Appello, che aveva riformato la sentenza precedentemente emessa in primo grado dal giudice del lavoro, la Suprema Corte ha precisato che tali notizie, in quanto provenienti da un soggetto qualificato, per avere il dipendente raggiunto un posto rilevante in seno alla società, per non essere rimaste confinate all'ambito interno essendo giunte anche ai clienti, avevano acquisito "una più ampia potenzialità di effetti" in ordine al danno di immagine per la datrice di lavoro.

Inoltre come sottolineato dal giudice territoriale "l'eventuale attentato alla credibilità di un'impresa, attraverso dichiarazioni non veritiere, costituiva fatto idoneo a minare in radice il rapporto di fiducia ed affidamento che il datore di lavoro ha diritto di nutrire verso il proprio personale e che la inspiegabilità delle ragioni che avevano indotto il lavoratore a diffondere tali notizie non attenuava ma, anzi, aggravava la entità dell'illecito rendendo ineludibilmente compromessa la prosecuzione del rapporto.".

Corte Cassazione e anatocismo bancario - sentenza 798 2013

Con la sentenza n.798 del 15 gennaio 2013 la sez. III civile della Corte di Cassazione ha nuovamente affrontato il tema dell'anatocismo e delle condizioni per proporre l'azione di nullità della clausola che pattuisce gli interessi e la domanda di ripetizione di quanto indebitamente addebitato dagli istituti di credito.

Il giudizio deciso dalla Corte in sede di legittimità scaturisce da un decreto ingiuntivo che, come si evince dalla sommaria ricostruzione del fatto, è stato proposto dal correntista nei confronti di un istituto di credito al fine di conseguire la restituzione dell'importo di L.413.785.381 a titolo di ripetizione di indebito oggettivo derivante dall'applicazione di interessi ultralegali e c.m.s. non validamente pattuiti per iscritto e, comunque, usurari, relativamente a tre rapporti di conto corrente bancario. Immaginiamo che a sostegno del ricorso monitorio il correntista abbia allegato gli estratti conto dai quali emergeva, verosimilmente, il saldo a debito del conto corrente e, poi, una ricostruzione contabile che determinava l'importo indebitamente addebitato.
Il giudice di primo grado ha accolto l'opposizione al decreto ingiuntivo proposta dalla Banca. Il correntista soccombente ha impugnato la sentenza di primo grado che, invece, la Corte d'Appello ha confermato. Pare di poter dedurre dalla pronuncia che si esamina che, a parere del ricorrente, la motivazione della sentenza impugnata fosse viziata per mancata valutazione di tutta la documentazione prodotta da cui sarebbe emersa, sia l'esistenza della causa debendi vantata dalla Banca, sia l'addebito di interessi e commissioni non dovuti.
La Corte di Cassazione a tal proposito precisa che "il vizio di motivazione sollevato dall'appellante appare inammissibile, perchè volto a conseguire un diverso apprezzamento delle risultanze documentali, già valutate dai giudici del merito con motivazione succinta, ma comunque adeguata e dissimula, dunque, una richiesta di riesame del merito, inibita in sede di legittimità. Peraltro il vizio costituito dalla mancata valutazione da parte del giudice di appello di alcuni documenti sarebbe inammissibile anche perché il presunto errore giudiziale non corrisponderebbe ad alcuno dei motivi di ricorso ai sensi dell'art. 360 c.p.c.".

Fermo quanto finora precisato la Corte prosegue nelle proprie valutazioni ed esamina quello che, a suo avviso, costituisce il punto centrale della decisione impugnata ove si precisa che "è ripetibile la somma indebitamente pagata e non già il debito sostenuto come illegale".
La Corte di Cassazione ricostruisce l'iter argomentativo che ha condotto il giudice di secondo grado ad effettuare la citata precisazione. Come hanno chiarito le Sezioni Unite della Cassazione intervenendo in materia di prescrizione del diritto alla restituzione dell'indebito, è indispensabile distinguere due tipologie di versamenti annotati in conto corrente. Solo quando il correntista non ha un'apertura di credito oppure ha un'apertura di credito e ha superato i limiti della stessa, ogni versamento che sarà annotato a debito rappresenterà un pagamento in quanto sarà finalizzato a realizzare uno spostamento patrimoniale in favore dell'istituto di credito che ne accresce il patrimonio a detrimento del correntista stesso.

La Corte osserva che il presupposto per la restituzione dell'indebito è che esista un pagamento cioè un versamento solutorio effettuato in assenza di un'apertura di credito oppure quando il limite dell'apertura di credito è stato superato. La sentenza infatti statuisce: "nel caso che durante lo svolgimento del rapporto il correntista abbia effettuato non solo prelevamenti, ma anche versamenti, in tanto questi ultimi potranno essere considerati alla stregua di pagamenti, tali da poter formare oggetto di ripetizione (ove risultino indebiti), in quanto abbiano avuto lo scopo e l'effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca. Questo accadrà qualora si tratti di versamenti eseguiti su un conto "scoperto" (cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista, o quando i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell'accreditamento) e non, viceversa, in tutti i casi nei quali i versamenti in conto, non avendo il passivo superato il limite dell'affidamento concesso al cliente, fungano unicamente da atti ripristinatori della provvista della quale il correntista può ancora continuare a godere."
La Corte prosegue sostenendo che l'annotazione rilevabile dagli estratti conto di una posta di interessi (o di c.m.s.) illegittimamente addebitati dalla banca al correntista non basta di per sé a dimostrare che a quell'annotazione abbia corrisposto un versamento solutorio e, quindi, un pagamento. Il correntista, dunque, sulla base di tali mere annotazioni (magari ricostruite da una consulenza contabile) non può agire per la ripetizione di un pagamento che, in quanto tale, da parte sua non ha ancora avuto luogo. La Corte, infatti, precisa: "Di pagamento, nella descritta situazione, potrà dunque parlarsi soltanto dopo che, conclusosi il rapporto di apertura di credito in conto corrente, la banca abbia esatto dal correntista la restituzione del saldo finale, nel computo del quale risultino compresi interessi non dovuti e, perciò, da restituire se corrisposti dal cliente all'atto della chiusura del conto."
In altri termini il correntista, nel caso esaminato dalla Corte, esigeva la restituzione dell'importo corrispondente ad una parte della somma dei saldi debitori dei suoi tre conti correnti così come risultanti, verosimilmente, dagli estratti conto allegati al decreto ingiuntivo (il passivo complessivo, infatti, era pari a L. 786.333.219), adducendone l'illegittimità, senza tuttavia aver dimostrato di aver chiuso l'apertura di credito o anche il conto e di aver restituito alla Banca il complessivo saldo a debito.
L'ingiungente, dunque, non ha dato prova di quell'arricchimento indebito dell'Istituto di credito che gli avrebbe dato diritto a conseguire la restituzione, tant'è che la Corte territoriale aveva affermato che "mancava la prova della corresponsione degli interessi, segnatamente evidenziando l'inconferenza della mera deduzione dell'illegittimità della clausola determinativa degli stessi, avuto riguardo all'oggetto dell'azione di ripetizione, rappresentato dal pagamento indebito e non già dal "debito sostenuto come illegale".
Ne consegue, quindi, che il correntista che voglia esigere la ripetizione dell'indebito adducendo l'illegittimità degli addebiti di interessi, CMS e valute può farlo solo con riferimento a versamenti di carattere solutorio e ha l'onere di fornire la prova che tali pagamenti siano effettivamente avvenuti, cosa che accade con la chiusura dell'apertura di credito o del conto corrente e con la corresponsione alla Banca dell'eventuale saldo debitore.
Diversamente, come, peraltro, già precisato da alcuni Tribunali, qualora non si fornisca tale prova, il correntista non può chiedere la ripetizione dell'indebito ma solo la rettifica del saldo.

Cassazione: occhio ai pettegolezzi sui vicini, è diffamazione

Attenzione a divulgare pettegolezzi in merito a fatti compiuti da terzi, veri o presunti che siano, è reato. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, che con la sentenza 8348/2013 ha condannato un uomo, e non una donna come si potrebbe facilmente presupporre, per aver diffuso la notizia di una presunta relazione adulterina di una vicina. A denunciarlo, cognata e fratello della donna che avevano appreso della questione dal vicino stesso.

A far fede è stata in misura maggiore la deposizione dettagliata del fratello della donna, maggiormente coinvolto nella vicenda a motivo del legame parentale particolarmente stretto.

Si sarebbe trattato di diffamazione anche nel caso in cui la notizia divulgata fosse stata vera? Sì, perché per costituzione sono da tutelare l'onore della persona e da rispettare la vita privata e familiare di un individuo.

"La riservatezza come dignità può cedere dinanzi al pubblico interesse della notizia, ma non può, in linea di principio, ammettersi che ciò avvenga oltre al soglia imposta dalla destinazione della notizia a soddisfare un bisogno sociale", ha ricordato la Suprema Corte nella sentenza.

Scatta quindi la condanna per diffamazione anche in relazione a comportamenti non approvati dall'opinione comune e fuori dai canoni etici, e non soltanto quando si attribuisce ad un individuo la paternità di un gesto compiuto che sia penalmente perseguibile.

Cassazione: non va ridotto il mantenimento alla ex che ha scelto la pensione anticipata


Ancora una volta la Corte di Cassazione torna ad occuparsi della liquidazione dell'assegno di mantenimento. Questa volta il caso riguarda il caso di una coppia in cui l'ex marito voleva pagare meno alla ex moglie dato che lei di sua iniziativa aveva deciso di andare in pensione in anticipo, all'età di soli 49 anni.
Questa scelta, secondo il marito, aveva determinato una riduzione volontaria delle entrate e per questo il mantenimento doveva essere ridotto considerando anche l'attitudine al lavoro della ex compagna.

Secondo la Corte però, la scelta del pensionamento anticipato non può essere imputabile all'ex dato che non risulta provata alcuna volontà contraria del marito all'epoca in cui questa scelta fu fatta. Epoca in cui la coppia ancora viveva insieme.

Come spiegano i Giudici di Piazza Cavour (sentenza 20 febbraio 2013 n. 4178), quando si prendono decisioni sull'assegno di mantenimento si deve tenere conto del fatto che la separazione instaura un regime che tende a conservare gli effetti del matrimonio compatibilmente con la cessazione della convivenza. Risulta corretta per questo la decisione della Corte d'appello anche in relazione alla valutazione dell'attitudine del coniuge al lavoro.

I giudici di merito hanno correttamente fatto proprio l'orientamento della Cassazione secondo cui l'attitudine del coniuge al lavoro assume rilievo solo in presenza di un'effettiva possibilità di svolgimento dell'attività lavorativa retribuita. Nella fattispecie, l'età della donna e l'avvenuto pensionamento anticipato impedivano sicuramente di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto durante la convivenza essendo anche accertata la disparità economica tra le parti.

Cassazione: no agli apprezzamenti volgari ad una collega. E voi che ne pensate?

Meglio evitare battutine poco eleganti alle proprie colleghe, anche se apparentemente "consenzienti". Potreste infatti ritrovarvi condannati per ingiuria. Che non è propriamente un punto a favore nel curriculum professionale.

Quel che è accaduto ad un impiegato delle Poste potrebbe servire come monito a molti uomini dalla battuta facile (che poi ammettiamolo, molte donne gradiscono). Il signor Roberto T. si è visto infatti annullare dalla Quinta Sezione Penale della Cassazione, con la sentenza 8761/2013, un'assoluzione dal Tribunale di Massa per ingiuria nei confronti di una collega, Stefania M., a cui aveva ben pensato di dare della "pornodiva". La frase incriminata sarebbe più precisamente "Ah, c'è anche la pornodiva sulla piazza".

Ora, quali che fossero le mises o gli atteggiamenti della signora in questione non ci è dato sapere (e forse poco dovrebbe interessarci), fatto sta che quello che per l'uomo doveva essere un semplice scambio di battute in un clima di "ilarità" e "scherzo", rischia di trasformarsi in un incubo.

Già il Giudice di Pace nel 2000 aveva inflitto all'uomo una multa di 400 euro quale risarcimento dei danni subiti dalla collega; sentenza che però in appello era stata annullata sulla base della "non sussistenza del reato", in quanto l'impiegato aveva agito "per esuberanza e per familiarità con un certo tipo di scherzo nell'ambiente di lavoro". Insomma dare della "pornodiva" in un ambiente goliardico altro non poteva essere che una "condotta scherzosa". Beh, andatelo a dire a chi passa le ore in fila per una raccomandata.... mah.

A questo punto la donna ha fatto ricorso, costituendosi parte civile, e gli ermellini lo hanno accolto, sulla base del fatto che "una donna possa tollerare delle avances più o meno tra il serio e il faceto non comporta affatto che ella si debba considerare disposta a farsi prendere a male parole, così come, ancor prima, l'avere risposto con un sorriso alla condotta scherzosa di un collega non autorizza affatto un altro uomo a ritenere che le sue battute siano altrettanto tollerate, o addirittura gradite".

A questo punto che qualcuno giri la notizia anche al Cavaliere, che con le sue "simpatiche" battute è andato un po' troppo oltre con una venditrice. E potrebbe rischiare un ulteriore processo, per cui non potrà contare su legittimi impedimenti. Però in fondo, l'azienda in cui la signora è impiegata non è sua.

Ora mi piacerebbe sentire che ne pensano sia gli uomini sia le donne a riguardo....


Cassazione: non basta attitudine al lavoro della ex per negarle il mantenimento

Non basta accertare l'esistenza di un'attitudine al lavoro della ex moglie per potersi sottrarre all'obbligo di corrispondere l'assegno di mantenimento.

È quanto afferma la Corte di Cassazione con la sentenza numero 3502/2013 che ha ribaltato un precedente verdetto della Corte di Appello di Catania che, a sua volta, aveva confermato la decisione del giudice di primo grado con cui era stato negato il mantenimento a una ex moglie ed aumentato, invece, l'importo del mantenimento dei figli collocati presso la madre.

La corte territoriale analizzando quanto emerso nel corso dell'istruttoria aveva evidenziato che il reddito del marito risultava inferiore a quello della moglie e che era anche cointestatario di mutuo ipotecario. Allo stesso tempo però, risultava proprietario di quote di fondi di una società e risultava essere socio di due società a responsabilità limitata.

Non solo: l'ex si marito era anche proprietario del 50% della casa coniugale ed aveva acquistato la nuda proprietà di un locale ad uso commerciale.

Al contrario il reddito della moglie si concretava nel corrispettivo dell'alienazione della meta' della casa coniugale (155 milioni di lire); "nella cointestazione di titoli mobiliari per 51 mila Euro e nell'esistenza di tre conti correnti con un movimento di modesta entita'".

La Corte d'Appello riteneva però che che non potessero sussistere i presupposti per riconoscere un mantenimento in favore dell'ex moglie che, data la giovane età e il conseguimento di un diploma di laurea, aveva la possibilità di inserirsi nel mondo del lavoro. Veniva quindi aumentato solo il contributo per il mantenimento dei figli minori tenendo conto anche del tipo di attività svolta dall'ex marito che denotava una maggiore capacità economica.

Il caso veniva portato quindi dinanzi alla Corte di Cassazione dove la ricorrente lamentava che la sentenza impugnata non aveva considerato come condizione essenziale per il sorgere del diritto al mantenimento del coniuge, la mancanza di redditi adeguati a consentire un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio. Secondo la ricorrente inoltre, la Corte d'Appello aveva "reputato che l'astratta attitudine e capacita' di lavoro del coniuge separato potesse far elidere il dovere di solidarieta' coniugale posto alla base dell'obbligo di mantenimento sancito nell'art. 156 c.c."

Una tesi che ha fatto breccia nei giudici di Piazza Cavour. Come si legge nella parte motiva della sentenza, nel provvedimento impugnato "si da atto che la ricorrente non svolge attivita' lavorativa e che la sua condizione patrimoniale, come affermato dalla Corte d'Appello nella motivazione della statuizione relativa all'aumento dell'assegno di mantenimento in favore dei figli minori, era nettamente inferiore a quella del coniuge". La sentenza impugnata aveva sostanzialmente dato rilievo a una potenziale professionalità della donna, ma tali condizioni se non sono collegate ad una concreta prospettiva di svolgere un'attività produttiva di reddito non possono far venir meno l'obbligo di corrispondere l'assegno di mantenimento.




Cassazione: ecco fino a che punto l'ipoteca garantisce gli interessi di mora

L'ipoteca, anche se è stata iscritta per garantire l'intero credito e gli interessi di mora, trova una limitazione nelle disposizioni contenute negli articoli 2788 e 2855 del codice civile. La prelazione ipotecaria per gli interessi maturati "dopo la scadenza dell'annualità in corso al giorno del pignoramento e fino alla data di vendita" sussiste, infatti, solo per gli interessi legali di cui all'art. 1284 c.c., essendo escluso, quindi, ogni riferimento a saggi di interesse stabiliti in misura superiore da norme speciali.

A precisarlo è la Corte di Cassazione (sentenza numero 775/2013) che si è occupata di una opposizione agli atti esecutivi, con cui veniva impugnata con ordinanza emessa dal giudice dell'esecuzione nell'ambito di una procedura esecutiva immobiliare.


L'ordinanza aveva confermato un progetto di distribuzione delle somme ricavate dalla vendita. L'opponente che aveva un credito garantito da ipoteca aveva contestato il fatto che non fosse stato considerato, nel progetto di distribuzione, il privilegio ipotecario per una parte del suo credito ossia per gli "interessi corrispettivi e moratori, gli interessi legali, relativi all'anno in corso, all'atto del pignoramento e fino alla vendita".

Il creditore che aveva proposto l'opposizione aveva contestato quanto affermato dal giudice dell'esecuzione secondo cui non potesse riconoscersi il privilegio ipotecario ai sensi dell'articolo 2855 del codice civile agli interessi moratori.

Dopo il rigetto dell'opposizione il caso finiva dinanzi alla Cassazione che ha chiarito come gli articoli 2788 e 2855 del codice civile, "nel disporre che la prelazione ipotecaria per gli interessi maturati dopo la scadenza dell'annualità in corso al giorno del pignoramento e fino alla data della vendita ha luogo solo nella misura legale, si riferiscono all'interesse legale previsto dall'art. 1284 c.c.".

Ne deriva che è escluso, quindi, ogni riferimento a saggi d'interesse stabiliti in misura superiore da norme speciali.

Cassazione: si possono offrire 10 euro agli agenti della stradale per evitare la multa. Non c'è corruzione

Il tentativo di un automobilista di convincere due agenti della polizia stradale a non multarlo per un'infrazione al codice della strada gli era costato una condanna da parte dei giudici di merito per istigazione alla corruzione. La vicenda è finita però davanti alla corte di cassazione che ha ribaltando il verdetto ed ha assolto l'imputato "perché il fatto non sussiste".

La decisione è della Sesta Sezione Penale della Corte (sentenza n.7505/2013) secondo cui la "palese irrisorietà" della somma offerta agli agenti della stradale era tale da non essere idonea a corromperli.

Semmai si sarebbe potuto parlare di oltraggio ma non certo di istigazione alla corruzione.

Il caso preso in esame dai giudici di piazza Cavour riguarda un automobilista che, fermato e contravvenzionato dalla polizia stradale, al momento in cui era stato richiesto di esibire la carta di circolazione, lo aveva fatto inserendo dentro una banconota da 10 euro. L'automobilista rivolgendosi agli agenti aveva anche detto "lassate stare e pigliatevi nu cafe".

Dato che la cosa era stata ripetuta con una certa insistenza gli agenti decidevano di denunciarlo. Dopo l'assoluzione in primo grado interveniva dalla corte d'appello che riteneva invece di dover punire quella condotta ai sensi dell'articolo 322 del
codice penale dato che l'imputato, in quel modo, avrebbe voluto evitare la contravvenzione.

Di diverso avviso la corte di cassazione dove ha fatto breccia la tesi del difensore del giovane automobilista secondo cui quel gesto, fatto da una persona "semplice", al massimo poteva essere interpretato come "segno di disprezzo degli agenti" ma non come istigazione alla corruzione.

La decisione è stata quindi annullata senza rinvio. Nella parte emotiva della sentenza si legge che "l'esibizione di una somma di 10 euro, corrispondenti ad una utilita' pari a 5 euro per ciascuno dei pubblici ufficiali operanti e destinatari dell'istigazione, al fine di poter fare loro omettere e quindi in concreto impedire - la preannunciata contravvenzione, per la sua palese irrisorieta', puo' semmai configurare il reato di oltraggio, per l'offesa all'onore e al prestigio del pubblico ufficiale destinatario della dazione stessa".

Cassazione: il reato di maltrattamenti in famiglia continua anche dopo la cessazione del rapporto di convivenza

"La cessazione del rapporto di convivenza, ad esempio, a seguito di separazione legale o di fatto, non influisce sulla sussistenza del reato di maltrattamenti, rimanendo integri, anche in tal caso, i doveri di rispetto reciproco, di assistenza morale e materiale e di solidarietà che nascono dal rapporto coniugale."

E' quanto affermato dalla Corte di Cassazione che, con sentenza n. 7369 del 14 febbraio 2013, ha altresì precisato che ciò si desume dalla lettera della norma che, nella formulazione antecedente alle modifiche introdotte con L.1-10-2012, n. 172, punisce la condotta di chi sottoponga a maltrattamenti una persona della famiglia, senza richiedere che il vincolo familiare si accompagni necessariamente ad un rapporto di convivenza o di coabitazione.

Tale principio - sottolineano i giudici di legittimità - è stato specificatamente affermato anche in relazione al caso di sistematici atti di percosse, ingiurie, minacce e molestie da parte del marito nei confronti della moglie separata.

Laddove l'agente, come nel caso di specie, "perseveri nelle condotte integranti il reato di maltrattamenti, dopo la cessazione della convivenza, senza alcuno iato cronologico, si verifica una protrazione dell'arco temporale di esplicazione del reato di cui all'art. 572 c.p.". Accolto quindi il motivo di ricorso dell'imputato secondo il quale, in forza della clausola di sussidarietà di cui all'art. 612 bis c.p., quest'ultimo reato, così come i reati di cui agli artt. 594 e 660 c.p., deve considerarsi assorbito nel delitto di maltrattamenti. Non vi è stato, infatti, un momento in cui i maltrattamenti siano cessati e siano iniziate le condotte di minaccia, ingiuria, percosse ma la condotta criminosa si è snodata, senza soluzione di continuità, dando luogo ad un unico reato di maltrattamenti.

Rigettando invece l'altro motivo di ricorso dell'imputato, i Giudici di Piazza Cavour hanno poi ribadito, come da costante giurisprudenza di legittimità, che "se è vero che le dichiarazioni rese dall'imputato, nell'ambito del procedimento penale a suo carico, costituiscono, in linea di principio estrinsecazione del diritto di difesa, è altresì vero che l'animus defendendi non esclude la calunnia ove l'agente non si limiti a contestare i fatti attribuitigli ma finisca con l'incolpare persone che egli sa innocenti.". Nel caso preso in esame dalla Suprema Corte, la presentazione di una denuncia nei confronti della moglie da parte dell'ex marito, con esplicita formulazione di un'incolpazione inveridica, eccede l'ambito del diritto di difesa, collocandosi nell'area della rilevanza penale. Correttamente - si legge nella sentenza - la Corte d'Appello sottolinea come tale iniziativa travalichi il rapporto funzionale tra la confutazione dell'imputazione e la condotta tenuta dall'imputato e come quest'ultima, estrinsecandosi attraverso un autonomo atto di denuncia, avulso dal contesto dell'indagine preliminare che lo coinvolgeva, integri gli estremi del reato di calunnia.

Cassazione: incidente stradale e riconoscimento del danno esistenziale

"Nel nostro ordinamento non esiste l'autonoma categoria del danno esistenziale, in quanto, ove in essa si ricomprendano i pregiudizi che scaturiscono dalla lesione di interessi di rango costituzionale della persona, ovvero derivanti da fatti reato, essi sono già risarcibili ai sensi dell'articolo 2059 del codice civile, con la conseguenza che la liquidazione di una ulteriore voce di danno si risolverebbe in una non consentita duplicazione risarcitoria."

Sulla base di tale principio la Corte di Cassazione, con sentenza n.

3290 del 12 febbraio 2013, ha rigettato il ricorso di un uomo rimasto gravemente ferito in un incidente stradale. Secondo il ricorrente la sentenza del giudice di merito sarebbe errata nella parte in cui ha omesso di liquidare il danno esistenziale conseguente al sinistro sostenendo di aver concretamente dimostrato il proprio desiderio di entrare a far parte della Polizia di Stato, desiderio rimasto frustrato proprio a causa delle menomazioni patite, che avevano portato l'Amministrazione, all'esito della visita medica, a ritenerlo inidoneo per tale attività.

La Suprema Corte ha però affermato che "l'accertamento di postumi, incidenti con una certa entità sulla capacità lavorativa specifica, non comporta l'automatico obbligo del danneggiante di risarcire il pregiudizio patrimoniale, conseguenza della riduzione della capacità di guadagno derivante dalla ridotta capacità lavorativa specifica e, quindi, di produzione di reddito."

Tale danno patrimoniale sussiste - si legge nella sentenza - solo se l'invalidità abbia prodotto una riduzione della capacità lavorativa specifica e deve essere accertato in concreto; il danneggiato è tenuto a dimostrare di svolgere un'attività produttiva di reddito e di non aver mantenuto, dopo l'infortunio, una capacità generica di attendere ad altri lavori confacenti alle sue attitudini personali. Occorre, in altre parole, la dimostrazione che la riduzione della capacità lavorativa si sia tradotta in un effettivo pregiudizio patrimoniale. Nella specie la Corte d'Appello, prendendo in esame l'intera vicenda relativa al danno subito, è correttamente pervenuta alla conclusione secondo cui l'accertata diminuzione della capacità lavorativa del ricorrente non si è tradotta in alcuna perdita di reddito dato che il ricorrente quale impiegato di banca svolgeva una professione "tradizionalmente considerata come tranquilla, sicura e sedentaria".