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venerdì 29 marzo 2013

Cassazione: il reato di maltrattamenti in famiglia continua anche dopo la cessazione del rapporto di convivenza

"La cessazione del rapporto di convivenza, ad esempio, a seguito di separazione legale o di fatto, non influisce sulla sussistenza del reato di maltrattamenti, rimanendo integri, anche in tal caso, i doveri di rispetto reciproco, di assistenza morale e materiale e di solidarietà che nascono dal rapporto coniugale."

E' quanto affermato dalla Corte di Cassazione che, con sentenza n. 7369 del 14 febbraio 2013, ha altresì precisato che ciò si desume dalla lettera della norma che, nella formulazione antecedente alle modifiche introdotte con L.1-10-2012, n. 172, punisce la condotta di chi sottoponga a maltrattamenti una persona della famiglia, senza richiedere che il vincolo familiare si accompagni necessariamente ad un rapporto di convivenza o di coabitazione.

Tale principio - sottolineano i giudici di legittimità - è stato specificatamente affermato anche in relazione al caso di sistematici atti di percosse, ingiurie, minacce e molestie da parte del marito nei confronti della moglie separata.

Laddove l'agente, come nel caso di specie, "perseveri nelle condotte integranti il reato di maltrattamenti, dopo la cessazione della convivenza, senza alcuno iato cronologico, si verifica una protrazione dell'arco temporale di esplicazione del reato di cui all'art. 572 c.p.". Accolto quindi il motivo di ricorso dell'imputato secondo il quale, in forza della clausola di sussidarietà di cui all'art. 612 bis c.p., quest'ultimo reato, così come i reati di cui agli artt. 594 e 660 c.p., deve considerarsi assorbito nel delitto di maltrattamenti. Non vi è stato, infatti, un momento in cui i maltrattamenti siano cessati e siano iniziate le condotte di minaccia, ingiuria, percosse ma la condotta criminosa si è snodata, senza soluzione di continuità, dando luogo ad un unico reato di maltrattamenti.

Rigettando invece l'altro motivo di ricorso dell'imputato, i Giudici di Piazza Cavour hanno poi ribadito, come da costante giurisprudenza di legittimità, che "se è vero che le dichiarazioni rese dall'imputato, nell'ambito del procedimento penale a suo carico, costituiscono, in linea di principio estrinsecazione del diritto di difesa, è altresì vero che l'animus defendendi non esclude la calunnia ove l'agente non si limiti a contestare i fatti attribuitigli ma finisca con l'incolpare persone che egli sa innocenti.". Nel caso preso in esame dalla Suprema Corte, la presentazione di una denuncia nei confronti della moglie da parte dell'ex marito, con esplicita formulazione di un'incolpazione inveridica, eccede l'ambito del diritto di difesa, collocandosi nell'area della rilevanza penale. Correttamente - si legge nella sentenza - la Corte d'Appello sottolinea come tale iniziativa travalichi il rapporto funzionale tra la confutazione dell'imputazione e la condotta tenuta dall'imputato e come quest'ultima, estrinsecandosi attraverso un autonomo atto di denuncia, avulso dal contesto dell'indagine preliminare che lo coinvolgeva, integri gli estremi del reato di calunnia.

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