"La cessazione del rapporto di
convivenza, ad esempio, a seguito di separazione legale o di fatto, non
influisce sulla sussistenza del reato di maltrattamenti, rimanendo
integri, anche in tal caso, i doveri di rispetto reciproco, di
assistenza morale e materiale e di solidarietà che nascono dal rapporto
coniugale."
E' quanto affermato dalla Corte di
Cassazione che, con sentenza n. 7369 del 14 febbraio 2013, ha altresì precisato
che ciò si desume dalla lettera della norma che, nella formulazione antecedente
alle modifiche introdotte con L.1-10-2012, n. 172,
punisce la condotta di chi sottoponga a maltrattamenti una persona della
famiglia, senza richiedere che il vincolo familiare si accompagni
necessariamente ad un rapporto di convivenza o di coabitazione.
Tale principio -
sottolineano i giudici di legittimità - è stato specificatamente affermato
anche in relazione al caso di sistematici atti di percosse, ingiurie, minacce e
molestie da parte del marito nei confronti della moglie separata.
Laddove l'agente,
come nel caso di specie, "perseveri nelle condotte integranti il reato di
maltrattamenti, dopo la cessazione della convivenza, senza alcuno iato
cronologico, si verifica una protrazione dell'arco temporale di esplicazione
del reato di cui all'art. 572 c.p.". Accolto quindi il motivo di ricorso
dell'imputato secondo il quale, in forza della clausola di sussidarietà di cui
all'art. 612 bis c.p., quest'ultimo reato, così come i reati di cui agli artt.
594 e 660 c.p., deve considerarsi assorbito nel delitto di maltrattamenti. Non
vi è stato, infatti, un momento in cui i maltrattamenti siano cessati e siano
iniziate le condotte di minaccia, ingiuria, percosse ma la condotta criminosa
si è snodata, senza soluzione di continuità, dando luogo ad un unico reato di
maltrattamenti.
Rigettando invece
l'altro motivo di ricorso dell'imputato, i Giudici di Piazza Cavour hanno poi
ribadito, come da costante giurisprudenza di legittimità, che "se è vero
che le dichiarazioni rese dall'imputato, nell'ambito del procedimento penale a
suo carico, costituiscono, in linea di principio estrinsecazione del diritto di
difesa, è altresì vero che l'animus defendendi non esclude la calunnia ove
l'agente non si limiti a contestare i fatti attribuitigli ma finisca con
l'incolpare persone che egli sa innocenti.". Nel caso preso in esame dalla
Suprema Corte, la presentazione di una denuncia nei confronti della moglie da
parte dell'ex marito, con esplicita formulazione di un'incolpazione inveridica,
eccede l'ambito del diritto di difesa, collocandosi nell'area della rilevanza
penale. Correttamente - si legge nella sentenza - la Corte d'Appello sottolinea
come tale iniziativa travalichi il rapporto funzionale tra la confutazione
dell'imputazione e la condotta tenuta dall'imputato e come quest'ultima,
estrinsecandosi attraverso un autonomo atto di denuncia, avulso dal contesto
dell'indagine preliminare che lo coinvolgeva, integri gli estremi del reato di
calunnia.
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