B.,
separandosi dalla moglie G.M., avrebbe dovuto versarle un assegno mensile di
700 euro, lasciarle la casa di famiglia e farsi carico delle spese processuali.
Al B. la sentenza non piacque, ovviamente, e optò per fare ricorso in Corte
d'Appello di Roma, puntando a mostrare la totale impossibilità di effettuare i versamenti richiesti, per via
di un introito mensile derivante dalla sola pensione di 1.000 euro. Con sentenza
n. 1830/10 del 28 aprile 2010, la Corte ne rigettò l'appello dimostrando
innanzitutto la possibilità materiale del C. di pagare mensilmente la cifra
stabilita, oltre che le spese processuali, a cui ora (ironia della sorte) si
dovevano aggiungere anche quelle dell'appello. Per dimostrare l'effettiva possibilità da parte del C.di pagare il
mantenimento, la Corte puntualizzò che "vanno prese in considerazione
le complessive situazioni patrimoniali dei soggetti, comprensive non solo dei
redditi in senso stretto, ma anche dei cespiti di cui essi abbiano il diretto
godimento e di ogni altra utilità suscettibile di valutazione economica".
Saltò così fuori che il signor C., grazie anche alle
testimonianze dei figli (tra cui il disabile, poi deceduto) e della sorella,
possedeva un piccolo impero economico, altro che misera pensione: una villa
trifamiliare, depositi bancari per 500.000 euro (come da lui stesso
dichiarato), il ricavato dalla vendita di uno dei tre appartamenti della villa
pari a 120.000 euro (nonché del diritto di usufrutto di altro appartamento), ed
inoltre i redditi provenienti dall'attività lavorativa per un società. Mentre
la ex-moglie G. era titolare di una misera pensione di 200 euro mensili con
l'unico beneficio di poter godere della casa familiare.
Non mollando il colpo il C. fece ricorso in Cassazione,
cercando di smontare le motivazioni addotte dai giudici in appello:
disponibilità patrimoniali in testa. Nel ricorso sostenne che i giudici avevano
omesso di valutare in maniera completa la situazione patrimoniale della moglie,
soprattutto in riferimento alla casa familiare che, per posizione ed
ubicazione, aveva un valore superiore alla villa di proprietà del C. Secondo il
ricorrente inoltre la Corte d'Appello avrebbe tralasciato di valutare, quali
prove fondamentali per stabilire il potere economico del C., le dichiarazioni
dei redditi relative ai periodi d'imposta dal 2005 al 2007, la dichiarazione
riguardo al deposito bancario pari ad Euro 500.000,00 che sarebbe frutto di
"mero refuso e/o errata interpretazione", la sola ed unica
attività lavorativa per conto di una società. A fronte di tutto ciò la
situazione patrimoniale del C. sarebbe risultata molto inferiore a quanto
affermato. Il C. ne ebbe da ridire anche sull'attendibilità della deposizione
del figlio, oltre che sull'iniquità della condanna al pagamento delle spese
processuali, che per lui avrebbero dovuto essere compensate.
La Cassazione, con sentenza 14349/2012, ha rigettato le
richieste del ricorrente anche se non è entrata nel merito avendo semplicemente
giudicato inammissibile il ricorso. Nella motivazione la corte spiega che
"i motivi d'impugnazione sono assolutamente generici" e che
"gli stessi motivi, complessivamente considerati, tendono
inammissibilmente a provocare una nuova valutazione delle prove assunte nel
giudizio di merito, notoriamente preclusa in sede di legittimità".
Affermando che "il ricorrente non può rimettere in discussione,
contrapponendone uno difforme, l'apprezzamento in fatto dei giudici del merito,
tratto dall'analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé
coerente, l'apprezzamento dei fatti e delle prove essendo sottratto al
sindacato di legittimità, in quanto nell'ambito di tale sindacato non è
attribuito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo
quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza
giuridica, l'esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta
riservato dì individuare le fonti del proprio convincimento e, al riguardo, di
valutare le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza e scegliere,
tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in
discussione (cfr., ex plurimis e tra le ultime, l'ordinanza n. 7921 del 2011)".
E aggiungendo che "ove il convincimento del giudice di merito si sia
espresso attraverso una valutazione dei vari elementi probatori acquisiti,
considerati nel loro complesso, il ricorso per cassazione deve evidenziare
l'inadeguatezza, l'incongruenza e l'illogicità della motivazione, alla stregua
degli elementi complessivamente utilizzati dal giudice, e di eventuali altri
elementi di cui dimostri la decisività, onde consentire l'apprezzamento
dell'incidenza causale del vizio di motivazione sul decisum (cfr., ex plurimis
e tra le ultime, la sentenza n. 15156 del 2011)".
Gli Ermellini hanno poi messo in luce come il C. "non
censura specificamente le rationes decidendi espresse dai Giudici a quibus, si
limita a contrapporre la propria valutazione delle prove documentali ed orali acquisite
a quella effettuata dalla Corte romana e denuncia pretese omissioni di
pronuncia e/o di motivazione che, invece, sono del tutto insussistenti (come,
ad esempio, per ciò che attiene alla comparazione delle situazioni economiche
dei coniugi), omettendo del tutto di evidenziare in modo specifico
l'inadeguatezza, l'incongruenza e l'illogicità della motivazione alla stregua
degli elementi complessivamente utilizzati dai Giudici dell'appello e di
eventuali altri elementi "decisivi", onde consentire l'apprezzamento
dell'incidenza causale del vizio di motivazione sull'effettivo decisum".
Inutile anche la richiesta di compensazione delle spese
legali. Secondo gli Ermellini i giudici di merito "hanno correttamente
condannato l'odierno ricorrente alle spese del grado in base al criterio della
(totale) soccombenza dello stesso".
E così l'ex-marito tirchio (o presunto tale) si è ritrovato a
dover pagare mantenimento e spese dei tre gradi di giudizio in un colpo solo!
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